Quattro giorni fa, il Cnel si è ufficialmente espresso contro l’introduzione del salario minimo (ne abbiamo parlato qui). Sta di fatto che la battaglia parlamentare in programma domani non si preannuncia per questo meno combattuta.
A schierarsi con l’opposizione a favore della sua introduzione per legge è, tra gli altri, Tito Boeri, economista e già presidente dell’Inps dal dicembre 2014 al febbraio del 2019.
“Il Cnel – ha avuto modo di spiegare – ha perso una grande occasione per rendersi, per una volta, utile. Esso coltiva l’idea che il mercato del lavoro italiano sia pressocché interamente regolato da sindacati e associazioni di categoria. A riprova di questo, ci sarebbe il fatto che quasi tutti i moduli (Uniemens) che regolano i versamenti contributivi delle aziende per i loro lavoratori contengono un riferimento esplicito a un contratto nazionale. Inoltre, sempre secondo il Cnel, nel 97% dei casi, si tratterebbe di contratti sottoscritti da federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil che ‘nella quasi totalità dei casi’ fissano dei minimi superiori ai 9 euro l’ora, il livello proposto dal disegno di legge presentato in Parlamento da un ampio fronte di partiti dell’opposizione. L’implicazione di tutto questo – è il ragionamento di Boeri – è che un salario minimo fissato a quel livello non servirebbe perché c’è già nei fatti. Bisognerebbe solo rendere obbligatorio per i datori di lavoro applicare i contratti collettivi sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi a tutti i lavoratori. Ma ci sono almeno tre problemi in questa tesi”.
Il primo che elenca l’economista originario di Milano è che “anche prendendo per buone le affermazioni del Cnel sul grado di copertura della contrattazione, ci sono molti ‘quasi’ di cui tenere conto. Il salario minimo è uno strumento che si rivolge a fasce marginali, relativamente piccole della forza lavoro. In molti Paesi non interessa più del 2-3% dell’occupazione. Quindi, il fatto che quasi tutti i lavoratori siano coperti dalla contrattazione e che quasi sempre questa fissi salari non da fame, non implica affatto che un salario minimo non sia necessario. Esso serve per affrontare il problema proprio di quel 2-3%di lavoratori. E il fatto che siano per lo più giovani, donne e immigrati non vuol certo dire che contino meno degli altri”.
Il secondo problema che evidenzia Boeri è, invece, il seguente: “E’ grave che il Cnel non riconosca i limiti dei dati disponibili sulle retribuzioni. Si affida pressocchè unicamente ai dati Inps sulle dichiarazioni contributive che hanno almeno due generi di problemi cui il Cnel sorprendentemente non fa riferimento. I dati dell’Inps non coprono il lavoro nero e solo parzialmente il lavoro grigio (in cui vengono dichiarati lavori part-time che in realtà sono a tempo pieno). Inoltre, l’Inps raccoglie contributi ma non c’è nessuna garanzia che a questi contributi corrisponda effettivamente una retribuzione loro proporzionata, alcuni datori di lavoro possono pagare i contributi corrispondenti ai minimi tabellari della contrattazione collettiva per evitare controlli e ispezioni, ma poi versare ai loro lavoratori meno di quella cifra. E l’Inps, questo non è in grado di saperlo”.
Terzo e ultimo nodo: “Il sindacato e le associazioni di categoria si rifiutano di misurare il loro grado di rappresentatività. Lo so bene perché, quando ero presidente dell’Inps, tentati di fornire misure oggettive della rappresentanza, ma mi trovai di fronte al divieto totale delle parti sociali a rendere pubblici i dati raccolti sui versamenti delle quote associative alle diverse sigle sindacali. I sindacati si limitano a fornire loro stessi dei dati sulla loro rappresentanza che sono sistematicamente più alti di quelli che si rilevano nelle indagini campionarie presso i lavoratori (pari al doppio di quelli rilevati sul campo secondo gli studi di tre ricercatori dell’università di Copenaghen). Ma anche qualora si riuscisse davvero a misurare le adesioni alle diverse sigle, come può un giudice stabilire a quali gruppi di lavoratori si applicano, definire i perimetri dei contratti collettivi, quando i loro confini tra imprese, settori e mansioni sono estremamente nebulosi? Un salario minimo per legge non avrebbe di questi problemi perché si applicherebbe a tutti i lavoratori, nessuno escluso”.
Infine, Boeri si scaglia contro un’affermazione del Cnel che giudica “aberrante nelle conclusioni”. Vale a dire: il problema dei salari in Italia è un problema di bassa produttività, ergo non è un problema di salario minimo. “Questo vero e proprio non sequitur sembra basarsi sull’idea da libro di testo che il salario sia pari alla produttività (marginale), cioè al valore di ciò che il lavoratore produce. Ma qui stiamo parlando delle retribuzioni più basse: a quei livelli retributivi ci sono mille motivi per cui il lavoratore può essere pagato molto meno del valore di ciò che produce. E il salario minimo servirebbe proprio a contrastare l’eccessivo potere contrattuale che hanno i datori di lavoro in questi casi”.