Secondo uno studio dell’Istat, a fine 2022 il complesso delle società non finanziarie italiane ha realizzato un margine di profitto del 44,8%; si tratta del valore più alto dal 2010, cioè dall’anno in cui l’Istituto ha cominciato a misurare questa variabile.
Ma a cosa si deve un risultato così brillante per i bilanci aziendali italiani? A vari fattori, fra cui anche una prolungata stasi del costo del lavoro e il ritardo con cui sono stati rinnovati molti contratti: nell’ultimo anno, sebbene si stiano sbloccando negli ultimi tempi, gli aumenti si sono fermati al 3%.
Risultato (paradossale): le imprese e i loro azionisti sono diventati più ricchi mentre i lavoratori sono rimasti come stavano. Anzi: hanno perso potere d’acquisto per la forte inflazione. Per questo, sono in tanti ormai a dire che è ora di ribilanciare i rapporti.
I numeri aggiornati dall’Istituto di statistica dicono che, nel complesso, nel 2023 e nel 2024, l’occupazione aumenterà (rispettivamente) dello 0,6% e dello 0,8%. In parallelo, calerà il tasso di disoccupazione, al 7,6% a consuntivo di quest’anno e al 7,5% l’anno prossimo. A ottobre, l’occupazione è aumentata dello 0,1% rispetto al mese precedente (in numeri assoluti +27 mila occupati), portando il tasso di occupazione al 61,8% (+0,1 punti percentuali, record italiano ma, come ricordato qui, con la media europea ancora lontana essendo al 78%). In aumento anche il tasso di disoccupazione, al 7,8% (+0,1% rispetto a settembre) anche a seguito del calo degli inattivi (-0,6%) il cui tasso è sceso al 32,9%.
Sempre secondo Istat, “le prospettive dell’occupazione mostrano una sostanziale stabilità”. Nel terzo trimestre, la quota dei posti vacanti ricercati dalle imprese si è ridotta di 0,1 punti (al 2,2%), dato che sintetizza una situazione quasi invariata nell’industria e un decremento dello 0,2% nei servizi. A novembre, infine, fra le imprese manifatturiere, delle costruzioni e dei servizi le attese sull’occupazione si sono deteriorate, mentre sono migliorate nel commercio al dettaglio