
Due docenti dell’Università Cattolica di Milano, il sociologo Luca Pesenti e la psicologa sociale Claudia Manzi, hanno condotto uno studio sullo smart working tramite il Laboratorio Swap, sviluppato dal Centro Ricerca sul Lavoro Carlo Dell’Aringa.
Ebbene: da questa ricerca è emerso che, dopo la pandemia, prevale un modello ibrido con in media due giorni a settimana di lavoro da remoto. E, nella metà dei casi, con l’organizzazione del lavoro che è orientata a riconoscere maggior autonomia nei tempi di svolgimento della prestazione.
Ma tutto ciò influisce sul senso di appartenenza? Pesenti e Manzi rispondono a questa domanda dicendo che il numero di giornate di lavoro svolte lontano dall’ufficio non determina di per sé un minor senso di appartenenza: ciò che più conta sono le caratteristiche personali dei dipendenti.
I giovani, ad esempio, sembrano aumentare il loro senso di appartenenza all’organizzazione lavorando molto da casa, probabilmente perché “nativi dello smart” e dunque socializzati sin da subito a queste modalità di lavoro.
Al crescere dell’età anagrafica, però, le cose cambiano: soprattutto tra gli over 50, superare i due giorni a settimana di lavoro agile aumenta il rischio di sperimentare un senso di alienazione nei confronti dell’organizzazione. Sta di fatto che sono le donne con figli e/o genitori anziani da accudire a trovare maggior profitto da un numero consistente di giornate di lavoro da casa. Mentre per gli uomini con elevati carichi di cura vale il contrario. Questo a conferma, molto probabilmente, di consolidati stereotipi di genere legati ai compiti di cura.
Più consolidata, sottolineano in ogni caso i due professori della Cattolica, è la diffusione del welfare aziendale, divenuto ormai un elemento imprescindibile nei sistemi di retribuzione complessiva, soprattutto nelle aziende di medio-grandi dimensioni.
L’analisi effettuata, tuttavia, mostra come anche su questo fronte sia aperta la sfida di una più accentuata personalizzazione, non sempre raggiunta utilizzando i più diffusi strumenti di gestione delle piattaforme di welfare aziendale. Non a caso, la prima richiesta è legata a servizi di conciliazione cura-lavoro seguita dalla domanda di formazione percepita sempre più come strumento che partecipa alla costruzione del benessere nell’organizzazione.
Insomma: la conclusione a cui giungono Pesenti e Manzi è che c’è ancora molto spazio per qualificare in modo più solido i piani di welfare e al contempo per sviluppare modelli organizzativi che garantiscano maggiore flessibilità e autonomia ai dipendenti. Tant’è che la soddisfazione verso il proprio datore di lavoro non dipende dalla maggiore e minore “ricchezza” del welfare disponibile o dall’estensione del lavoro flessibile, ma dalla loro qualità, dalla loro adeguatezza rispetto alle esigenze personali.