Cosa sperano davvero di trovare gli italiani quando si mettono alla ricerca di un lavoro? Di sicuro uno stipendio soddisfacente. Ma anche (e sempre più), un modo di vivere bene. Stando all’Employer brand research di Randstad svolto in 32 Paesi, il cosiddetto work life balance precede di poco la richiesta di avere un’atmosfera di lavoro piacevole. L’ambiente di lavoro, quindi, conta più delle prospettive di carriera. E la retribuzione e i benefit scendono al terzo posto per ordine d’importanza.
Ma non solo: una certa meritocrazia e l’equità dei trattamenti precedono addirittura la sicurezza del posto di lavoro. Tant’è che in Italia si sta giungendo a quello che fino a poco tempo fa sarebbe stato un paradosso: alla tendenza, vale a dire, per la quale sono i datori di lavoro a spingere per fare contratti a tempo indeterminato. Il che, naturalmente, spinge in alto il livello di mismatch.
E comunque: molti aspiranti lavoratori sono del tutto disinteressati a un impiego stabile. E sebbene le aziende temano fortemente il nomadismo intellettuale (le più attrezzate si stanno dando da fare per essere più competitive in questo campo), il legame con le aziende si costruisce sempre più a fatica.
L’Italia è agli ultimi posti in Europa per il benessere lavorativo: esso risulta soddisfacente solo per il 30% degli intervistati contro il 60 del resto d’Europa. Questo disagio si aggiunge alle retribuzioni scandalosamente basse.
Le richieste dei Millennial (le persone tra 27 e 42 anni) e della generazione Z (quelli tra i 18 e i 26 anni) del nostro Paese sono, naturalmente, molto superiori.
In un’altra ricerca sempre di Randstad, Work Monitor, realizzata in 34 Paesi, si è cercato di capire l’atteggiamento individuale verso il lavoro di tutti gli occupati, dai 18 ai 67 anni.
Il lavoro è importante per il 72% degli italiani. Ma, incredibile a dirsi, si sono persi cinque punti in un solo anno. In Francia lo è per il 60%; nel Regno Unito per il 58%. In Brasile e in India per il 93%o. In Cina per l’87%.
E fa riflettere davvero la misura del senso di appartenenza alla propria azienda: per i boomer (le persone con più di 59 anni) è pari al 64%; per i millennial si attesta al 25%; per la generazione Z, precipita al 15%.
E’ quasi una conseguenza, quindi, notare che 34% si dichiara disposto a lasciare il lavoro se questo condizionasse troppo la propria vita privata. La percentuale schizza al 70 per la generazione Z. Ma non solo: le motivazioni che stanno alla base di un ruolo professionale sono in caduta libera. Per l’Italia è al 60%, nove punti meno della rilevazione di un anno prima. In India è all’89%. E il 51% della generazione Z sceglierebbe di non lavorare se i soldi non fossero un problema. Un dato che arriva addirittura al 60% tra i Millennial.
Si dirà che da noi non c’è più fame di lavoro perché in ogni caso viviamo in un Paese ricco. Ma, in altri Paesi europei, anche più benestanti del nostro, non è così. Del resto, un Paese che cresce deve aver voglia di rischiare. In Italia, invece, si riscontra sempre meno il desiderio di provarci.