Come se la passa il mondo del lavoro in questo inizio 2024? A rivelarlo è il rapporto annuale della società di consulenza statunitense Gallup. Esso dice che, nonostante la crescita occupazionale globale del 2023, lo stress e l’insoddisfazione dei lavoratori hanno raggiunto picchi storici (44%). E che, di conseguenza, il fenomeno del quiet quitting (vedi qui) è più diffuso che mai (coinvolge il 59% dei lavoratori).
Le richieste dei dipendenti includono riconoscimento (41%), stipendi proporzionati alle qualifiche (28%) e attenzione al benessere psico-fisico (16%). In Italia, poi, si lamentano bassi livelli di coinvolgimento (5%) e alti livelli di stress quotidiano (46%). Investire nel capitale umano, allora, diventa sempre più importante per migliorare la produttività, soprattutto quando ci si trova di fronte a un passaggio generazionale che, di solito, offre opportunità di sviluppo e modernizzazione aziendale.
Il report di Gallup, intitolato State of the Global Workplace, è stato stilato su un campione di oltre due milioni di persone in tutto il mondo (circa mille per ogni Paese).
Il fatto che fra di esse, la grande maggioranza (59%) sia rientrata addirittura nella categoria del quiet quitting come si spiega? Questo elevato livello di insoddisfazione e stress potrebbe essere in parte dovuto alla ripresa stessa del post-pandemia, ma anche ad altre questioni esterne come l’alta inflazione che si registra in diverse aree del mondo e che sembra andare a vanificare ogni sforzo produttivo, di risparmio e/o guadagno individuale.
Sta di fatto che anche alla fine del 2023, secondo l’American Psychological Association, il rischio burnout professionale era ovunque ai massimi livelli.
L’Asia orientale con la Cina, ma anche Canada e Stati Uniti, registrano, a oggi, i livelli più alti di stress sul lavoro (in Asia si sfiora addirittura il 60%). È un fenomeno, quindi, generalizzato e preoccupante. Anche perché lo stress dei dipendenti va a incidere su prestazioni e produttività. E questo è un elemento cruciale specialmente in un momento in cui tutti i leader mondiali sono impegnati a sfruttare al massimo la ripresa post Covid.
Si stima che un basso coinvolgimento dei lavoratori nel mondo costi all’economia globale ben 8,8 trilioni di dollari l’anno, pari al 9% del Pil globale. Far felici i propri dipendenti non è dunque solo una missione morale, ma anche una sfida economica.
A questo proposito, sempre Gallup ha domandato ai dipendenti più insoddisfatti che cosa cambierebbero, loro, del proprio posto di lavoro per renderlo migliore. Ebbene: il 41% degli intervistati auspica la possibilità di essere riconosciuto per i propri meriti, di gestire le proprie mansioni con autonomia, per stimolare la creatività anche attraverso la formazione continua, obiettivi più chiari e una guida più forte. Il 28% vorrebbe dunque stipendi più alti o comunque proporzionali alle qualifiche, all’impegno e al tempo speso in ufficio; convenzioni per le spese di trasporto; assistenza all’infanzia interamente sovvenzionata; premi ai dipendenti per i risultati ottenuti. Il 16% chiede una comunicazione più chiara e tempestiva dei turni per organizzare al meglio il proprio tempo libero alla riduzione degli straordinari, dal creare una clinica sanitaria interna all’azienda al riuscire a lavorare di più da casa e avere un luogo di ritrovo dove poter stare insieme agli altri colleghi anche solo per una pausa caffè. Richieste assolutamente naturali e condivisibili, ritenute prioritarie anche dalla maggior parte dei lavoratori italiani.
Per Gallup, nel nostro Paese, le cose vanno piuttosto male: solo il 5% degli italiani si dichiara coinvolto sul proprio posto di lavoro, mentre spiccano alti livelli di stress quotidiano (46%) e scarsa fiducia riguardo il dinamismo del mercato del lavoro nostrano, ad esempio.
Perché tanta insoddisfazione? A tentare di rispondere a questa domanda è stato Federico Orlandini, senior Business Solutions Consultant presso Gallup: “In Italia, c’è una forte prevalenza di microimprese, ossia aziende fino a dieci lavoratori. Queste aziende, spesso a carattere familiare e create durante gli anni ’50 e ’60 in pieno boom economico, hanno potuto tenere il passo con la competizione internazionale grazie ai vantaggi dei distretti industriali. Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono manifestati anche i limiti di questo modello di sviluppo. Il dato più allarmante è il basso tasso di investimento in capitale umano, in particolare per quanto riguarda formazione e cultura manageriale, che spesso è dettata dall’imprenditore o dai suoi successori. Questa mancanza di investimento può spiegare il perché la produttività della forza lavoro è insoddisfacente”.
L’obiettivo numero uno, insomma, deve essere quello di rimotivare i lavoratori e in particolare i dipendenti, cominciando magari proprio a smantellare quello stile manageriale eccessivamente gerarchico e padronale, tipico italiano, che non è più adatto al mondo del lavoro, in particolare nella realtà post-Covid.
Per essere più produttivi nasce la figura del manager della felicità (in ufficio) - Il Mondo del Lavoro