Per essere più produttivi, al lavoro bisogna essere felici. Sembra un’utopia, ma in un Paese in cui dichiara di “star bene” solo il 41% dei lavoratori, stando all’ultimo rapporto Gallup, è più che altro un nodo che va affrontato.
Se si chiede ai lavoratori italiani delle sensazioni provate nell’ultima giornata in ufficio, stress (46%) e tristezza (25%) sono molto più diffusi che nel resto d’Europa (rispettivamente 37% e 17%). E questa situazione si riflette anche nell’aumento delle denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail nel primo trimestre del 2024: 22.620, 4.456 in più rispetto allo stesso periodo del 2023 (+24,5%). L’incremento è del 55,8% rispetto al 2022, del 66,5% sul 2021, del 60,4% sul 2020 e del 42,3% sul 2019.
Una situazione che spinge molte aziende a correre ai ripari prevedendo percorsi privilegiati di welfare. Oppure, ricorrendo a una neonata figura professionale: il Chief Happiness Officer, in altre parole: il manager della felicità.
Non è una figura professionale istituzionale ma una community di professionisti in continuo aumento.
In Italia, l’esperienza di 2bHappy Agency di Veruschka Gennari e Daniela Di Ciaccio ha fatto scuola anche all’Omu, dove hanno condiviso la loro esperienza nell’ambito dei lavori per l’elaborazione dell’Happiness Index.