Con l’inizio di aprile, lo smart working è tornato alla gestione ordinaria: si è conclusa la fase di emergenza determinata dalla pandemia che ha permesso a tutti i lavoratori, e poi soltanto a quelli affetti da patologie gravi e ai genitori di ragazzi al di sotto dei 14 anni, di lavorare da remoto anche tutti i giorni, senza alcun bisogno di ottenere il consenso del datore di lavoro. Ora si torna alla normalità, e quindi, dal punto di vista delle procedure, all’accordo individuale con il datore di lavoro.
Se l’azienda decide di avvalersene, in ogni caso, dovrà privilegiare i lavoratori con grave disabilità, con figli fino a 12 anni o disabili, caregiver e anziani.
Sta di fatto che tornare allo status pre-Covid non sembra affatto scontato. La pandemia, da questo punto di vista, potrebbe aver cambiato le cose per sempre. Lo smart working si usa sempre di più: i lavoratori che lo utilizzano sono passati dai 570 mila del 2019 ai 3 milioni e mezzo del 2023, e ai 3,65 milioni entro la fine del 2024, secondo le stime dell’Osservatorio del Politecnico di Milano. Ma tra i millennials da remoto, ora, ci sta anche chi si sente penalizzato. Perché? Presto detto: temono che lavorare a distanza freni la loro carriera.
Questo quadro è attestato da varie indagini, da quella di Aidp (associazione dei direttori del personale) a quella di Dell Technologies: per il 63% della Generazione Z, lo smart working è una condizione non trattabile. Il che vale anche per i millennials. Ma dopo quattro anni si comincia a vedere anche il rovescio della medaglia.
In particolare, l’indagine condotta da Astra Ricerche dimostra come il 47,8% dei lavoratori lamenti impatti negativi dello smart working sui rapporti con i colleghi, mentre il 70% lo associ a un peggioramento della propria condizione lavorativa. Aspetti negativi lamentati soprattutto dagli over 45. Ma anche i più giovani ammettono che lavorare da remoto riduce le occasioni di coordinamento, di confronto e le possibilità di crescita e sviluppo professionale.
Un dilemma, evidentemente, che va affrontato. Non è facile però trovare le condizioni di grande flessibilità richieste da molti giovani lavorator: le aziende, anche quelle più grandi, si orientano maggiormente verso modelli ibridi, con una prevalenza di lavoro in presenza.
L’analisi sulla distribuzione dello smart working dimostra intanto che è una realtà importante solo per le grandi imprese, dove lavora in modalità agile un lavoratore su due, 1,88 milioni. Nelle Pmi invece l’ultima indagine del Polimi riscontra solo 570 mila smart workers, il 10% della platea potenziale, e nelle microimprese ancora meno. Non va benissimo neanche nella Pubblica Amministrazione, dove a lavorare da remoto sono 515 mila addetti, il 16% del totale. Quello che serve è un cambio di mentalità, ripensare il lavoro per obiettivi piuttosto che come svolgimento di compiti assegnati.