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Referendum. Serve competenza, non tifo politico

È fondamentale distinguere tra il giudizio politico e la risoluzione tecnica dei problemi

In vista dei referendum dell’8 e 9 giugno, il dibattito pubblico ha assunto toni sempre più esasperati, dominati da una logica da stadio che contrappone tifoserie politiche, anziché promuovere un confronto informato e costruttivo. Sui social, nei talk show e nei commenti dei leader di partito, assistiamo alla polarizzazione estrema delle opinioni: destra contro sinistra, progressisti contro conservatori. Ma così si perde completamente di vista la natura tecnica, concreta e urgente delle questioni in oggetto.
È fondamentale distinguere tra il giudizio politico e la risoluzione tecnica dei problemi. Il referendum non è — e non dovrebbe mai diventare — un voto di fiducia su un governo o un’occasione per regolare conti ideologici. È uno strumento di democrazia diretta, pensato per affrontare nodi specifici e, spesso, complessi.
Le problematiche in gioco riguardano temi sindacali, diritti del lavoro, equilibri delicati tra la tutela dei lavoratori e la sostenibilità per le imprese. Questioni che non appartengono a un partito: sono problemi reali, che richiedono serietà, competenza e responsabilità.
Eppure, oggi prevale il qualunquismo. La maggior parte del dibattito si svolge in modo superficiale, tra slogan e attacchi reciproci. Si parla di “votare Sì” o “votare No” come se si stesse tifando una squadra, ignorando completamente la complessità dei contenuti. Molti confondono il referendum con un’elezione politica, e pochi conoscono gli effetti reali che le diverse scelte possono avere.
In tutto questo, viene ignorata anche una terza possibilità: l’astensione consapevole.
Non come disinteresse o boicottaggio sterile, ma come scelta ponderata. In certi casi, astenersi può significare ritenere il quesito mal posto, troppo tecnico, o superato nei fatti. Anche questa è una posizione legittima, se nasce dalla comprensione e non dalla disinformazione.
Il problema è che troppe persone scelgono per appartenenza ideologica, non per consapevolezza. E così si perde un’occasione preziosa per migliorare davvero le nostre politiche.
È giusto che, una volta approvata o respinta una proposta, il governo di turno la interpreti secondo la propria visione — liberista, conservatrice, progressista. Questo è il gioco democratico. Ma il dibattito referendario deve partire da fatti, non da identità. Le proposte devono essere analizzate per ciò che contengono, non per chi le sostiene.
Un sindacato non è un partito politico e non dovrebbe diventarlo. La sua funzione è tutelare i lavoratori, indipendentemente da chi governa. Il bene dei lavoratori e quello delle aziende è assoluto, non relativo a uno schieramento.
Se continueremo a trasformare ogni occasione di confronto in una guerra ideologica, resteremo fermi. Il giorno dopo il voto, ci troveremo di nuovo al punto di partenza, avendo sprecato un’altra opportunità. Come in un infinito, deprimente Truman Show, dove tutto sembra cambiare, ma nulla cambia davvero.
Serve più consapevolezza, più spiegazioni tecniche, più senso civico.
Solo così potremo trasformare questi referendum da strumenti di propaganda a strumenti di progresso.

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Autore - Articoli pubblicati: 194

Segretario Generale Confederazione SELP

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