Quante persone lavorano a nero in Italia? Tra contratti (finti) di poche ore, salari fuori busta, zero tutele, flessibilità totale e minacce costanti di essere “licenziati”, nel nostro Paese, stando all’Istat, si arrangiano ben tre milioni di uomini e donne.
Nello specifico, l’Istituto nazionale di statistica calcola nel 2021 un aumento delle maestranze in nero di 73 mila unità rispetto al 2020 (+2,5%), e un’incidenza sull’attività sommersa pari a 69 miliardi di euro, il 3,7% del Pil.
Numeri che fanno dire che ormai il ricorso al lavoro non regolare da parte di imprese e famiglie è una caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano.
Il lavoro nero è diffuso in tutti i settori: nei servizi alle persone tocca il 42%, segue l’agricoltura con quasi il 17%, poi l’edilizia, il commercio, il turismo e la ristorazione in cui si stima un’illegalità fiscale e contributiva attorno al 13%.
La stragrande maggioranza degli sfruttati sono stranieri che oltre a non avere un contratto non hanno neppure i documenti. Eppure, badanti e baby sitter sono fondamentali per le famiglie: suppliscono ai buchi del welfare e si prendono cura di anziani, bambini e malati che altrimenti sarebbero senza sostegno. Sono spesso lavoratrici dell’est Europa e dell’America latina e, pur svolgendo un impiego usurante, delicato e sottopagato, sono spesso alla ricerca di soluzioni molto flessibili perché magari hanno intenzione di restare poco tempo nel nostro Paese.
Diversa è la situazione in cui si trovano le vittime del caporalato nei campi o gli operai nei cantieri: qui le condizioni sono tali che si rischia la vita quotidianamente. Poi c’è tutto il comparto del commercio, del turismo e della ristorazione che, in teoria, dovrebbe trainare l’economia del Paese insieme all’industria, ma dove gli addetti non si trovano a causa dell’offerta debole dei datori di lavoro, un vero e proprio disincentivo. Si offrono, infatti, paghe da fame, in nero o comunque fuori da una finta busta paga, senza certezze sulle ore lavorate o i giorni di riposo.
E quindi: gli irregolari impiegati nel lavoro domestico sono oltre 700 mila; tra i 2 e i 300 mila gli invisibili che operano in ciascuno dei settori dell’agricoltura, del commercio, delle costruzioni, del settore alloggi, della ristorazione e delle attività artistiche. Circa centomila gli addetti in nero nei trasporti e nel magazzinaggio.
Secondo la Cgia di Mestre in termini assoluti è il Nord l’area del Paese con il maggior numero di lavoratori in nero: sarebbero 1, 2 milioni. Nel Mezzogiorno, invece, sarebbero poco più di un milione, mentre al Centro se ne contano 780 mila. Tuttavia, la classifica cambia se si considera l’incidenza del lavoro irregolare sul totale dell’occupazione: in questo caso, l’area con il tasso di “nero” maggiore è il Sud, con Calabria e Campania in testa.
Ma cosa si fa per sconfiggere questa piaga? Il ministero del Lavoro ha realizzato un Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso che si prefigge di contrastare l’illegalità nel prossimo triennio.
Sta di fatto che le azioni messe in campo continuano però ad alimentare lo scetticismo dei sindacati. La segretaria nazionale della Fai-Cisl Raffaella Buonaguro, ad esempio, ricorda la lotta al caporalato e alla politica dei ghetti: “Vogliamo sapere, in primis, che fine hanno fatto i 200 milioni di euro del Pnrr stanziati per gli alloggi dei lavoratori agricoli. Ma, in generale, serve una revisione strutturale della Bossi-Fini, della politica dei flussi e delle modalità del click-day perché molte aziende segnalano la mancanza di manodopera ma poi nei ghetti incontriamo ogni giorno braccianti che lavorano in nero anche da vent’anni sebbene spesso abbiano fogli di via, permessi scaduti, richieste di regolarizzazione appese da anni alla burocrazia”. Su questo tema, aggiunge Buonaguro, “vorremmo anche che governo e istituzioni riprendano in mano il tavolo anticaporalato, valorizzando tutti i fondi stanziati e valutando la pubblicazione dei prezzi anticaporalato nella grande distribuzione”.
C’è, poi, il problema dei controlli perché l’Ispettorato è sotto organico: “I redditi agricoli non crescono se non si applicano i contratti e non si promuove la concorrenza leale”.
Ma il problema non si ferma certo a questo settore: nella ristorazione, il nero è ormai diventato un sistema: oltre il 70% delle ispezioni della Guardia di Finanza in pizzerie, locali, bar, ristoranti portano alla luce l’utilizzo di personale in nero o senza permesso di soggiorno. La tecnica dei datori di lavoro “furbetti” si è affinata negli anni ed è presto detta: raramente le Fiamme gialle pizzicano un lavoratore completamente in nero, gli invisibili sono quasi sempre gli extracomunitari senza documenti. Per gli altri – camerieri, barman, cuochi – il “sistema” prevede un part time regolare, da 10-15 ore a settimana. Solo che quel lavoratore di ore ne lavora 50 o 60. E il pagamento aggiuntivo è fuori busta. Un modo, purtroppo spesso efficace, per provare a eludere i controlli nella Repubblica fondata sul lavoro, ma nero.