
Il dibattito sulla proposta di un salario minimo fissato per legge ha suscitato un acceso confronto tra diverse fazioni, spesso polarizzate secondo schieramenti politici, piuttosto che basate su un’analisi approfondita dei dati e delle reali situazioni salariali. La complessità del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da una vasta gamma di settori e da un sistema di contrattazione nazionale ed integrativa diversificato, rende evidente che la questione non può essere affrontata semplicemente attraverso l’introduzione di una legge che stabilisca un salario minimo.
Uno dei problemi principali nel dibattito è la mancanza di conoscenza dei vari trattamenti retributivi nei diversi settori, in relazione alle ore di lavoro effettuate nell’arco dell’anno e del mese. Ad esempio, mentre la media delle giornate lavorate per la maggior parte dei lavoratori del settore privato è di 235, nei servizi di ristorazione ed alloggio tale cifra scende a 143, secondo i dati dell’Osservatorio INPS. Questa diversità significativa tra settori si traduce in una notevole variazione dei salari lordi annuali e dei valori orari delle giornate retribuite, calcolati attraverso i contratti collettivi nazionali del lavoro (CCNL). Inoltre, è difficile valutare quante giornate retribuite in nero siano presenti in alcuni settori.
È importante sottolineare che la “questione salariale” in Italia non riguarda solo i salari minimi troppo bassi, proposti ad esempio dall’opposizione parlamentare a 9 euro all’ora, ma coinvolge molteplici problematiche. Tra queste figurano la mancanza di adeguamento dei salari rispetto ad altri Paesi europei, la scarsa correlazione tra salario e produttività, il mancato rinnovo di numerosi CCNL e l’irregolare applicazione di questi ultimi in alcune aziende. Si affiancano situazioni come i contratti “pirata”, l’ampia precarietà nel mondo del lavoro, i rapporti di lavoro non continuativi e i contratti “in pejus” rispetto ai CCNL seri.
Tutte queste problematiche non possono essere risolte attraverso la fissazione per legge di un salario minimo. La soluzione richiede misure di più ampio respiro e, soprattutto, un forte coinvolgimento della contrattazione sindacale. La proposta di legge Schlein, Conte, Fratoianni, Calenda ed altri introduce un “minimo complessivo” anziché un “minimo tabellare,” includendo diverse voci fisse nelle retribuzioni, come le mensilità aggiuntive, gli scatti di anzianità e le indennità fisse e continuative. Tutto ciò deve essere definito attraverso i CCNL, che rappresentano le organizzazioni sindacali e datoriali a livello nazionale.
Questa proposta tiene inoltre conto della qualità del lavoro svolto, riconoscendo la necessità di differenziare i salari in base alle diverse categorie professionali e alla produttività. È fondamentale sottolineare che solo la contrattazione sindacale può valutare adeguatamente questi aspetti, senza l’imposizione da parte del legislatore.
La fissazione per legge di un salario minimo potrebbe avere un impatto positivo su alcune categorie di lavoratori con salari inferiori a 9 euro all’ora, ma penalizzerebbe coloro che si trovano in posizioni retributive più elevate. Questo potrebbe portare molti datori di lavoro a preferire il salario minimo legale rispetto ai contratti collettivi, compromettendo i vantaggi inclusi nei CCNL, come premi di produzione, indennità e altre agevolazioni.
Come ha sottolineato il professor Tarantelli, l’istituzione politica non può sostituire la contrattazione collettiva tra le parti sociali. La contrattazione rappresenta un sistema complesso di regole che tiene conto delle dinamiche economiche, industriali e sociali, e non può essere ridotto a una semplice regolamentazione salariale. È compito dei sindacati e delle organizzazioni datoriali rinnovare i CCNL e garantirne una piena applicazione in ogni settore lavorativo, al fine di affrontare le sfide salariali in modo efficace e sostenibile.