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Lo tsunami che attende il mondo del lavoro

Qual è il futuro del lavoro
Lo ha descritto Riccardo Maggiolo, fondatore di Job Club, sulle colonne dell'Huffington Post

Riccardo Maggiolo, fondatore di Job Club, start-up sociale che affianca le persone nella ricerca di un impiego, ha scritto sull’Huffington Post che nel mondo del lavoro si avvicina un vero e proprio tsunami.

Per il manager, “lo tsunami in arrivo è destinato a travolgere le organizzazioni e la società tutta. Una vera propria rivoluzione, forse ancora più profonda e gravida di conseguenze della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Perché se quest’ultima, dal pc all’Intelligenza artificiale, ha riguardato e riguarda gli strumenti, quella in corso riguarda invece gli agenti; le persone, i lavoratori. Che stanno cambiando radicalmente in due dimensioni: sia in quella quantitativa che in quella qualitativa.

Cosa significa? “Partiamo dalla dimensione quantitativa – spiega Maggiolo – I lavoratori stanno sparendo a causa dell’invecchiamento della popolazion:e anche se mantenessimo gli attualmente bassi tassi di disoccupazione, già nel 2030 avremo 730 mila persone in meno nella forza lavoro; nel 2040, meno 2,6 milioni; nel 2050, meno 3,7 milioni: una diminuzione di oltre il 15% della forza lavoro. E si noti bene che si tratta di previsioni che un aumento dell’immigrazione o delle politiche a sostegno della natalità potranno solo al massimo contenere”.
“Ma non basta – continua l’esperto – perché oltre al tema demografico ce n’è anche uno anagrafico. Come ha evidenziato l’Istat nel suo recente rapporto annuale, negli ultimi vent’anni la forza lavoro risulta invecchiata più velocemente della popolazione: rispetto al 2004, la quota di giovani tra i 15 e i 34 anni è diminuita più velocemente che nella popolazione (-11,5 punti rispetto a -6,3 punti). E l’opposto è avvenuto tra gli ultracinquantenni: più 16,6 contro più 5,3 punti per i 50-64enni, e più 1,6 contro più 4,7 punti per i 65-89enni. Questo ci dice due cose. Primo: le coorti anagrafiche più popolose stanno arrivando al fine vita lavorativo. Secondo: le aziende italiane non stanno cogliendo l’occasione per innovare davvero; per contaminarsi e capire meglio il proprio tempo, preferendo invece continuare a muoversi sul binario del già conosciuto e del capitalismo relazionale. Quindi, la popolazione lavorativa invecchia rapidamente, e ci saranno sempre meno persone a disposizione sul mercato.
Così, Maggiolo arriva alla terza questione riguardo la dimensione quantitativa: quella delle competenze.
“Si parla ossessivamente di digitale, di Intelligenza artificiale, di smart working, e si rimane completamente ciechi o quasi sulle vere dimensioni e dinamiche del nostro mercato del lavoro. Se è vero, infatti, che nel prossimo futuro la domanda di ruoli a maggior valore tecnico e scientifico aumenterà, questo rimarrà comunque complessivamente un fenomeno assolutamente marginale. Il grosso della forza lavoro italiana è attiva nei servizi alla persona, nel commercio al dettaglio, nella sanità, nell’istruzione, e in secondo luogo nella manifattura. Questi sono spesso lavori che non solo è difficile fare in età anziana, ma anche quelli meno esposti all’automazione e meno in grado di accedere a forme di flessibilità lavorativa. E anche quelli che già cominciano drammaticamente a scarseggiare.

Una vera tragedia in atto è che per vent’anni almeno abbiamo ossessionato i giovani con l’idea che il loro futuro era nel terziario avanzato – in ufficio a lavorare con computer, per capirci – e li abbiamo spinti a intraprendere quelle carriere, magari anche scoraggiando i loro interessi e inclinazioni. Ora è proprio questo il tipo di occupazione la più esposta all’automazione, per cui i giovani non solo sono pochi e in diminuzione, ma sono anche giustamente restii a ricollocarsi in lavori che per loro rappresentano una sconfitta e una perdita del valore della loro formazione – anche se sempre di più sono costretti a farlo”.

Infine, sottolinea Maggiolo, c’è anche l’aspetto qualitativo: “Le nuove generazioni intendono il lavoro in maniera sensibilmente diversa da chi li ha preceduti. Semplificando al massimo, per millenni le persone hanno lavorato perché non farlo voleva dire morire di fame. egli ultimi decenni almeno un numero crescente di persone ha lavorato anche o forse soprattutto per “diventare qualcuno”. Perché il lavoro “nobilita”, dà dignità ma anche opportunità. Ora entrambe queste leve stanno perdendo di forza”.

“Oggi – sottolinea l’ideatore di Job Club – le giovani generazioni possono contare su capitali e rendite familiari per cui raramente temono di poter finire un giorno senza una casa o un pasto. Essendo poi cresciuti in un mondo iperconnesso e digitale, la loro costruzione identitaria passa molto meno dal possesso di quei titoli o beni posizionali a cui il lavoro dà accesso. Perciò l’offerta storica delle organizzazioni, cioè quella di offrire alle persone protezione e appartenenza in cambio di fedeltà e dedizione è sempre meno attrattiva”.

Questo non solo rischia di deprivare il nostro Paese di capacità produttiva e innovativa, ma anche e soprattutto di produrre una società sempre più polarizzata e disuguale, e quindi in ultima analisi violenta e disfunzionale. Una società con da una parte lavoratori deboli – giovani, donne, immigrati – costretti in impieghi necessari ma allo stesso tempo malpagati e sfruttati, e dall’altra lavoratori protetti da capitali finanziari e relazionali assieme a milioni di inattivi che vivranno di rendite e pensioni”.

Allora, per evitare questo scenario, cosa servirà fare?

Maggiolo la mette così: bisogna cambiare paradigma sebbene la nostra classe dirigente sembra vivacchiare, intenta solo a sfruttare le congiunture del momento o a sopravvivere nonostante l’incertezza sistemica: “Ma scoprirà troppo tardi che non ci sarà chi gli porterà il drink in spiaggia o sarà pronto ad accoglierla al pronto soccorso quando ne avrà bisogno”.

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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