
L’Italia è il Paese dove, negli ultimi anni, i salari, in media, sono cresciuti meno in assoluto. E questa tendenza, stando agli ultimi dati forniti da Eurostat, continua a consolidarsi.
Nel 2022, infatti, secondo la ricerca dell’istituto di statistica, con il +2,3% di aumento medio degli stipendi a fronte di una inflazione che ha raggiunto l’8,7%, in Europa, occupiamo il penultimo posto nella difesa del potere di acquisto dei salari. Peggio di noi, fa solo la Danimarca. Ma c’è da dire che, in quel Paese, in termini assoluti, i salari sono molto più alti rispetto ai nostri.
La media Ue vede una inflazione che è andata oltre il 9% e i salari che sono cresciuti della metà: il 4,4%. Per avere un’idea più generale: in Francia, i salari sono aumentati del 3,7% a fronte di una inflazione al 5,9%, in Germania del 4,4% a fronte di una inflazione all’8,7%. In Bulgaria e Romania, poi, gli stipendi hanno addirittura guadagnato qualcosina rispetto all’inflazione: nel primo caso, i salari sono cresciuti del 15,5% e l’inflazione del 13%; nel secondo, del 12,3% rispetto al 12% netto dell’inflazione.
Dov’è il nodo da sciogliere in Italia quindi? Detto che anche il Cnel ha rilevato che il Def licenziato dal Governo avrebbe dovuto ritenere prioritaria la strada del recupero dell’inflazione attraverso lo strumento della contrattazione collettiva e che, al contrario, vedi alla voce pubblica amministrazione, non è stata prevista alcuna risorsa aggiuntiva, rende bene la situazione il dato secondo cui, su 966 contratti collettivi depositati, ben il 59,2% di essi è scaduto e attende di essere rinnovato.
Il che va a discapito soprattutto delle fasce più deboli: a fronte di un aumento medio annuo del 9,5% dei prezzi al consumo nel primo trimestre di quest’anno, l’Istat ha calcolato che, per il 20% più povero della popolazione, l’inflazione vera che deve affrontare è schizzata al 12,5% mentre, per il 20% della popolazione più abbiente, l’inflazione stessa non va oltre l’8,2%.