Non bisognerebbe più parlare di disuguaglianze di genere o territoriali, ma piuttosto di disuguaglianze economiche e sociali che vanno a penalizzare tutto il sistema-Paese.

Secondo l’Istat, lo scorso anno, le donne occupate nella fascia d’età 20-64 anni in Italia sono state meno di 9 milioni, poco più di una ogni due. Lo stesso indicatore per gli uomini è pari al 74,7%, circa 20 punti percentuali più alto.

Questi dati medi mascherano situazioni territoriali molto differenti, ma sarebbe sbagliato, secondo Marianna Filandri, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Torino, considerarli rivelatori di un problema solamente territoriale, nello specifico del Sud.

Questo sebbene da un lato ci siano regioni come Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta con tassi di occupazione femminili oltre il 70% (seguite da Emilia Romagna, Toscana e Friuli -Venezia Giulia dove sono circa 2 su 3 le donne occupate) e da un altro lato ci siano regioni come la Campania, la Sicilia, la Calabria e la Puglia dove il tasso di occupazione non supera il 38%.

Secondo la studiosa torinese, bisogna affrontare la questione come una sola problematica nazionale: “L’eterogeneità territoriale – scrive in un editoriale apparso su La Stampa – è caratterizzata dal fatto che in tutte le regioni le donne hanno sempre una minore probabilità degli uomini di essere occupate. Quindi, le diseguaglianze di genere si sommano a quelle territoriali. È un problema che riguarda tutti, non solo il Mezzogiorno”.

La chiave per giustificare questo approccio, la Filandri la trova nel fatto che “se le donne, in particolare nelle regioni del Sud, non lavorano, la distanza tra chi ha di più e chi meno sarà più alta. Una maggiore diseguaglianza, comporta meno benessere, più povertà e costi per la collettività. Al contrario, aumentare l’occupazione femminile avrebbe conseguenze positive sia dirette che indirette. Innanzitutto – osserva la docente – l’occupazione femminile rappresenta un fattore produttivo che può contribuire alla crescita e allo sviluppo economico aumentando il Pil tramite più ore lavorate e maggiore produttività. Inoltre, fa crescere la domanda di servizi, ad esempio di lavori domestici o di cura, ma anche di alcuni consumi come pasti pronti o lavanderie e agisce quindi da volano per l’occupazione addizionale. Non ultimo – sottolinea ancora Filandri – va ricordato che c’è una associazione positiva tra l’occupazione femminile e il tasso di fecondità: più donne lavorano, più i redditi familiari aumentano, più figli si fanno”.

La conclusione che trae l’esperta, quindi, è che non bisognerebbe più parlare di disuguaglianze di genere o territoriali, ma piuttosto di disuguaglianze economiche e sociali che vanno a penalizzare tutto il sistema-Paese. “Ciò che va cambiato – è il suo auspicio – non è il genere o il territorio, ma che a una parte di essi manchi qualcosa di importante”.

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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