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Chi sogna più di fare carriera?

Secondo Randstad, sono sempre meno i lavoratori che si impegnano per un avanzamento. Colpa (anche) della pandemia. E, evidentemente, di un avvertimento di Charles Bukowski

C’è una citazione dello scrittore Charles Bukowski che, negli ultimi tempi, sta facendo molti proseliti sui social e, evidentemente, non solo. Dice: “Tra venti anni, le uniche persone che si ricorderanno se hai lavorato fino a tardi sono quelle che ti aspettano a casa ogni sera”. Questo per dire che di fronte al bivio di scegliere tra la carriera e il resto della vita, almeno metà dei lavoratori (non solo italiani) confessa di aver perso la spinta e l’ambizione per dedicarsi a occhi chiusi solo alla prima.

Lo conferma il workmonitor di Randstad evidenziando che c’è sempre più interesse ad aspetti valoriali, di flessibilità e di equilibrio con la vita privata.

Per questo risultato, sono stati coinvolti oltre 26 mila lavoratori a livello globale, di cui 700 in Italia, considerando generazioni diverse, di età compresa tra i 18 e i 67 anni.

A dirsi molto ambiziosi sono la Generazione Z (67%) e i Millennials (57%), gli uomini (56%) molto più delle donne (47%). In media, però, solo metà degli intervistati si dichiara “ambizioso” nella propria carriera. E ben il 42% in questo momento non è concentrato nell’avanzamento di ruolo.

Più in generale, metà dei lavoratori (50%) sarebbe disposta a rimanere in un ruolo che gli piace anche se non ci fosse spazio per crescere e ben un terzo (34%) non desidera affatto una progressione di carriera.

Se si chiede per chi la carriera è una priorità allora ad affermarlo è solo il 35% dei lavoratori. Una quota analoga, (il 34%), potendo scegliere la massima ambizione professionale, non assumerebbe mai ruoli manageriali. Non sorprende, quindi, che appena il 5% sogna di essere il capo della sua azienda e il 4% di essere ceo.

Premesso che lo stipendio campeggia sempre al primo posto tra le priorità dei lavoratori, l’approccio che si osserva alla vita professionale è molto cambiato negli ultimi anni e questo rende più complicato il lavoro dei manager delle risorse umane, alle prese con cambiamenti organizzativi che stanno lasciando il segno anche sulla motivazione.

Marco Ceresa, group ceo di Randstad spiega che, a conferma della percezione, i dati parlano di “un forte calo della motivazione al lavoro tra gli italiani, un evidente segnale di malessere che va ascoltato e compreso. Il lavoro si conferma fondamentale nel fornire senso e scopo alle persone, ma oltre alla carriera, sempre più lavoratori includono anche altro nella definizione della propria ‘ambizione’ professionale: oggi, non può prescindere da aspetti valoriali, di flessibilità, di equilibrio con la vita personale. Non sono pochi – continua Ceresa – gli intervistati che affermano di poter essere appagati da un lavoro senza prospettive di carriera ma comunque nelle loro corde, certamente un’eredità della riflessione profonda delle persone nel periodo di pandemia”.

Del resto, oggi il lavoro è importante nella vita per il 72% degli italiani, una quota in calo di 5 punti rispetto a solo un anno fa. Quanto alla motivazione, poi, essa cala letteralmente a picco: si dice “motivato” nel ruolo ricoperto solo il 60% delle persone, ben 9 punti in meno rispetto a dodici mesi fa. Il 51%, invece, si dice “ambizioso” per la propria carriera.

E i fattori che contano nel lavoro? Quali sono? Sono principalmente l’equilibrio tra lavoro e vita privata (94%), la retribuzione (93%) e la sicurezza del lavoro (90%), il “sentirsi realizzati” (87%), la flessibilità di orario (80%), il numero di giorni di ferie (79%), la formazione (79%), l’assicurazione sanitaria (75%).

L’opportunità di un avanzamento di carriera, come una promozione o il passaggio a un nuovo ruolo, arriva solo al nono posto, evidenziata dal 74% del totale.

 

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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