
Ieri, presso la Plenaria Marco Biagi del CNEL, si è tenuto il convegno “Una legge sulla rappresentatività sindacale e la contrattazione collettiva” in ricordo di Massimo D’Antona e Umberto Romagnoli — due giganti del diritto del lavoro che hanno saputo leggere con intelligenza critica le trasformazioni della società italiana e della sua organizzazione del lavoro.
Ma proprio in nome della loro eredità intellettuale, non si può tacere sull’incongruenza profonda tra ciò che questi studiosi rappresentavano e ciò che oggi il CNEL sembra diventare: un organismo che, pur nato per promuovere il pluralismo e la partecipazione delle forze sociali, sta scivolando in un ruolo ancillare, funzionale a rafforzare poteri effimeri e parziali.
Il patrocinio a un convegno interamente organizzato da una sola organizzazione sindacale, peraltro in una sede istituzionale che dovrebbe rappresentare tutti i corpi intermedi, è solo l’ultima prova di una deriva sistemica.
Un CNEL che esclude, non che include
Finché il CNEL continuerà a prestarsi a iniziative di parte, incentrate su visioni ideologiche autoreferenziali e finalizzate al consolidamento di posizioni dominanti, il suo contributo alla costruzione di un sistema rappresentativo moderno sarà non solo nullo, ma dannoso.
Il risultato? Si tagliano fuori tutti gli altri soggetti della rappresentanza sociale, proprio quelli che faticano ogni giorno a tenere insieme esperienze professionali, settori produttivi frammentati, nuovi modelli di lavoro e partecipazione.
Altro che “pluralismo” e “progresso della rappresentatività”: si assiste a una gestione autoreferenziale del potere, che parla a se stessa, ignora la complessità e rifiuta ogni forma di confronto realmente inclusivo e sostenibile.
La retorica dell’inclusione che esclude
Sotto il velo della memoria e del rispetto — valori profondi e indiscutibili — si ripropone la solita narrazione: quella secondo cui una sola parte avrebbe il diritto esclusivo di definire la legge sulla rappresentanza, sulla contrattazione, sulla dignità del lavoro.
Ma dov’è il coinvolgimento reale degli altri corpi intermedi?
Dov’è il dialogo che la Costituzione affida proprio a istituzioni come il CNEL, che invece si limita ad ospitare chi ha già tribune, potere mediatico e accesso diretto alla politica, tagliando fuori chi rappresenta milioni di lavoratrici e lavoratori attraverso esperienze associative autonome, nuove e non incasellabili?
Serve un bagno di realtà
È tempo che il CNEL guardi in faccia la realtà effettuale delle cose, come direbbe Machiavelli.
La rappresentanza sociale è cambiata. Il mondo del lavoro è cambiato.
Le modalità di partecipazione e aggregazione si sono trasformate. Continuare a difendere equilibri di potere basati su logiche novecentesche non è solo anacronistico, è un ostacolo al progresso.
Una legge sulla rappresentatività è necessaria, ma non può essere scritta a quattro mani tra il legislatore e una sola confederazione. Deve nascere da un confronto vero, aperto e pluralista, che dia voce a tutte le esperienze sindacali, professionali, associative, anche a quelle che oggi non siedono nei palazzi, ma che ogni giorno stanno accanto a chi lavora davvero, in condizioni sempre più complesse e mutevoli.
Se il CNEL vuole avere un ruolo nel futuro del lavoro, deve scegliere da che parte stare: o si fa garante dell’equilibrio tra le parti sociali, oppure continua a essere complice di una rappresentanza finta, concentrata nelle mani di pochi, e sorda alla società reale.
Oggi non basta ricordare D’Antona o Romagnoli: bisogna onorarne l’eredità, tornando a costruire una cultura del lavoro fondata su dialogo, pluralismo, e responsabilità condivisa.
Ma la CGIL aveva davvero bisogno del CNEL per organizzare un convegno?
Con tutto il rispetto per la memoria di Massimo D’Antona e Umberto Romagnoli — due figure fondamentali per il diritto del lavoro e la riflessione sulla rappresentanza — viene spontaneo chiedersi: la CGIL non dispone di sedi proprie, autorevoli e simboliche, per tenere un suo convegno?
Perché scegliere proprio il CNEL, un’istituzione che dovrebbe rappresentare l’intero pluralismo dei corpi intermedi, per promuovere un’iniziativa di parte?
Se la scelta è stata fatta per “legittimare” le proprie tesi sotto l’ombrello istituzionale, allora siamo davanti a un uso strumentale di un luogo pubblico per fini sindacali parziali.
Se invece la presenza della CGIL è diventata preponderante per assenza o esclusione degli altri soggetti, allora il problema è ancora più grave: si svuota di senso il ruolo costituzionale del CNEL, che da sede di confronto rischia di trasformarsi in amplificatore di una sola voce.
Il punto non è negare la legittimità di un convegno o di una posizione sindacale, ma chiedere trasparenza e coerenza: si è trattato di un convegno pluralista?
Sono stati coinvolti altri sindacati, altre associazioni, altre visioni?
Il patrocinio del CNEL è stato concesso per valorizzare il confronto, o solo per dare una veste istituzionale a una linea già scritta?
Finché il CNEL si presta a operazioni di questo tipo, perde la sua funzione naturale: quella di garantire rappresentanza, non di ospitare il potere già consolidato.
In un momento in cui si discute di legge sulla rappresentatività, il messaggio lanciato è chiaro e inquietante: si vuole scrivere quella legge in casa propria, escludendo gli altri, e magari imponendola dall’alto, con l’avallo di un’istituzione che non dovrebbe essere di parte.
È ora di dirlo con chiarezza: non si costruisce una rappresentanza moderna tagliando fuori chi non è allineato, ma ascoltando tutte le realtà del lavoro contemporaneo — anche quelle che non hanno megafoni o sedi storiche, ma che ogni giorno rappresentano il cambiamento reale.