
Le stime sulla chiusura del 2023 hanno portato un’inedita novità: l’Italia è cresciuta più della media europea (+0,9% vs +0,4%), rivista in rialzo dalle stime precedenti di 0,2 punti percentuali. È un dato inusuale, ma che evidenzia come nell’anno passato l’Italia avesse sofferto meno di altri Paesi l’inflazione e la conseguente stretta monetaria.
Non è la prima volta che succede. Ma perché? Se l’è chiesto sulle pagine del Sole 24 Ore Valerio De Molli, Ceo e Managing partner The European House Ambrosetti.
“Molto spesso il nostro Paese sorprende, in meglio e al rialzo, tutti i principali Istituti di previsione economica. Le previsioni per il 2024 stimano per l’Ue una crescita dello 0,9% e per l’Italia dello 0,7 per cento. Sorprenderemo ancora tutti al rialzo? Vedremo. La domanda da porsi dovrebbe essere quindi: il 2023 è stato un anno eccezionale, o lo è il 2024? Per spiegare la crescita degli anni passati non si può non osservare che, come evidenziato dall’Istat nella sua ultima nota, negli ultimi anni l’Italia ha registrato la crescita del settore delle costruzioni più elevata di tutti a livello europeo, con un settore più dinamico anche in confronto agli altri comparti dell’economia. Sembra un elemento positivo, ma a guardarlo meglio e a collegarlo alle misure che hanno incentivato questo dinamismo il quadro cambia”.
“Il settore costruzioni – ragiona De Molli – ha beneficiato, negli ultimi anni, di una misura di politica economica che non si può non definire un regalo: il Superbonus. La ratio economica alla base della misura poteva essere condivisibile (stimolare l’economia, nel pieno della crisi pandemica, andando contemporaneamente a stimolare l’efficientamento energetico nel settore edilizio). La realizzazione, tuttavia, ha presentato moltissime criticità, anche gravi. Partiamo dalla più ovvia: se chi paga (il condominio o il proprietario di un immobile) sa che lo Stato gli ripagherà l’intera spesa, a cui aggiungerà un 10% di gentile omaggio, che interesse ha a trattare sul prezzo? E infatti abbiamo visto un aumento esorbitante dei prezzi nel settore immobiliare, ben al di sopra del generale andamento inflazionistico. Il secondo problema: nessuno aveva previsto un limite di spesa massimo. Tant’è che la differenza fra il deficit previsto dalla Nadef (pubblicata a fine settembre 2023) e il deficit a consuntivo è pari a 39 miliardi di Euro (l’1,8% del Pil!): una differenza macroscopica ma spiegabile dal fatto che lo Stato si era impegnato a pagare le ristrutturazioni a chiunque ne facesse richiesta. Beh, almeno ci sono stati benefici ambientali. Certo: abbiamo migliorato l’efficienza energetica del 4% del patrimonio immobiliare italiano, al modico costo di 114 miliardi di euro”.
Per De Molli, quindi, il Superbonus va superato “perché i danni da esso provocati sui conti pubblici rimarranno, e a lungo. Spero – ha confidato l’economista – che questa esperienza ci insegni almeno che le misure economiche, se finalizzate al facile consenso, possono fare dei danni enormi”. Del resto, c’è chi, come l’ex ministro del Tesoro Paolo Cirino Pomicino, con una fulminante battuta, ha proposto l’introduzione del “110 bis” per i politici, alla stregua del famigerato 41.
Fatto sta che “dall’Osservatorio di The European House – Ambrosetti, nonostante lo scenario di riduzione delle prospettive di crescita, la business community scommette su un anno migliore delle previsioni, come evidenziato da un sentiment ottimistico. Il sentiment è misurato attraverso il TEHA Club Economic Indicator, elaborato con una survey somministrata a 450 imprenditori e business leader italiani. L’indicatore va da -100, massima sfiducia, a +100, totale ottimismo. La rilevazione di marzo 2024 posiziona la fiducia sulle prospettive a sei mesi a +39,0, in leggera crescita rispetto al +36,2, registrato a dicembre. Si tratta del trimestre migliore da marzo 2022. Resta comunque aperto il tema della produttività del Paese e, in particolare, delle PMI e della P.A”.
“Non dimentichiamoci – avverte De Molli – che, fatto 100 il valore della produttività (espresso come valore aggiunto per occupato) nel 2000, nel 2022 questo indicatore ha raggiunto 124,1 in Germania, 114,9 in Francia, 114,6 in Spagna e solo 101,6 in Italia: una produttività stagnante da oltre vent’anni. Contribuisce a questa performance negativa l’abbassamento della produttività della Pubblica Amministrazione: fatta 100 la produttività nel 2000, nel 2022 era pari a 90,4”.
Il secondo elemento che zavorra la produttività italiana è poi, per il Ceo, rappresentato dalla scarsa penetrazione delle imprese multinazionali: “Una grande impresa internazionale ha una produttività in media superiore del’11,3% rispetto ad una nazionale, addirittura superiore del 26,3% nel confronto fra piccole imprese estere e italiane. Bisogna quindi riaccendere la discussione sulla produttività – conclude De Molli – Rappresenta il male storico del Paese e il vero freno alla crescita nell’ultimo ventennio”.