
Lo smart working è uno strumento che bisogna ben utilizzare. Esso, infatti, comporta non solo vantaggi, ma anche pericoli. Lo ha rilevato una ricerca condotta dall’Osservatorio della Content Factory della società di consulenza Bip, secondo cui ben 8 lavoratori su 10 hanno sofferto durante e dopo la pandemia la cosiddetta “solitudine professionale”. Si tratta, nello specifico, di una condizione di carenza relazionale percepita nel luogo di lavoro che, nei casi più estremi, si traduce in ansia, depressione, burnout e finanche riduzione della motivazione.
La ricerca della Bip è stata condotta su un campione di 355 lavoratori di vari livelli e settori. E da essa è scaturito anche che i più esposti a soffrire la sindrome della solitudine professionale sono coloro i quali hanno iniziato da poco la loro carriera oppure si trovano a un livello intermedio, con 3-5 anni di esperienza alle spalle. In queste due categorie, la percentuale di chi soffre di solitudine professionale si attesta rispettivamente al 39% e al 30%. Con lo scorrere della carriera, invece, il disagio va diradandosi.
Ma come fare a colmare questo gap? Come affrontare questo problema? Secondo gli analisti, si rivela molto utile il mentoring, vale a dire una specifica metodologia di formazione che fa riferimento a una relazione uno a uno tra un soggetto con più esperienza e uno che ne ha meno. Dietro alla comodità di lavorare da remoto, ci sono anche dei risvolti che hanno un impatto non solo sulla produttività ma anche sul benessere delle persone. Se si vuole utilizzare bene lo smart working, bisogna mettere in campo soluzioni per organizzare il lavoro altrettanto innovative.