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Cosa significa avere “un buon lavoro”

In libreria il saggio di Manuela Perrone e Stefano Cuzzilla con la prefazione di Ferruccio de Bortoli

Manuela Perrone, giornalista de Il Sole 24 Ore, e Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager, Cida e Trenitalia, sono in libreria con “Il buon lavoro”, sottotitolo “Benessere e cura delle persone nelle aziende italiane” per i tipi della casa editrice Luiss.

“Avere un buon lavoro, oggi – si legge nella quarta di copertina – non significa soltanto avere un buon reddito o una posizione sociale riconosciuta, ma anche essere dediti a un’attività conciliabile con le esigenze e le aspirazioni personali. La prospettiva di “stare bene” sul luogo di lavoro diventa una necessità urgente in un mondo che cambia sempre più rapidamente e che calo demografico, crisi climatica e disuguaglianze sociali mettono a dura prova. Osservando da vicino la realtà delle imprese italiane, Stefano Cuzzilla e Manuela Perrone presentano con questo saggio uno strumento indispensabile per orientarsi negli anni a venire, anni in cui desideri, ambizioni e sostenibilità sociale non saranno più vissuti come fastidi, ma come possibilità di crescita e benessere”.

Ma, in definitiva, che cosa è un buon lavoro? A questa domanda ha tentato di rispondere l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli nella prefazione del libro: “Se dovessimo dare una risposta immediata, quasi d’istinto, diremmo che è quello nel quale ritroviamo più ragioni di vita. Cioè tutte quelle ragioni che il lavoro, nella sua dimensione novecentesca e fordista, finirebbe per comprimere, schiacciare, annullare persino. Il lavoro di cui si parla in questo libro non è più, dunque, un tempo sottratto alla vita, alla libertà individuale e collettiva, ma il suo complemento, la sua realizzazione. Con buona pace di chi pensa – in particolare dopo la pandemia – che si stia accentuando un divorzio irrimediabile tra vita e lavoro soprattutto nelle giovani generazioni. Un buon lavoro è tale se è soddisfacente non solo sul versante del benessere personale e familiare ma anche e soprattutto se ha una ricaduta positiva sulla comunità. E se questa ricaduta si vede, è riconoscibile. Non è importante che sia stabile (questo storicizza anche l’assillo della precarietà), è essenziale che ci consenta di crescere anche intellettualmente e vincere l’inevitabile noia della ripetitività e della prevedibilità”.

“Essere in pace con sé stessi è un traguardo invidiabile – sottolinea de Bortoli – Avere la consapevolezza che il proprio tempo di lavoro non si esaurisca semplicemente nel calcolo di un’utilità marginale per chi lo chiede e chi lo offre, costituisce una motivazione che si irradia positivamente sul resto della vita. Non solo la nostra. Nel lavoro ci deve essere qualcosa di più della qualità del suo svolgersi, della sua retribuzione, delle opportunità di crescita che dischiude. Ci vuole altro”.

“Certo, ma che cos’è “altro”? – si chiede de Bortoli – E’ proprio questo l’obiettivo di questo libro. L’altro non coincide necessariamente con le attese e i diritti degli altri, chiariamo subito. Una deriva accademica e pubblicistica sui temi del lavoro, nell’era dell’intelligenza artificiale e della robotica, tende ad accreditare l’immagine plastica di un futuro prestatore d’opera, colto sulla via di Damasco da una insopprimibile voglia di aiutare il mondo, ripulirlo, abbellirlo. Fosse vero, vivremmo in una meravigliosa società ideale che potrebbe però anche trasformarsi nell’incubo distopico dei libri di Kurt Vonnegut. No, non dipingiamoci migliori di quello che siamo o potremmo essere”.

“Un buon lavoro – scrive sempre de Bortoli – è fatto di prospettive personali di carriera, della voglia di stare meglio e – perché no? – di arricchirsi, di trasformarsi da manager a imprenditori, di non mettere limiti ai propri desideri di crescita. L’ambizione non è un peccato anche se in alcune nuove forme di lavoro sembra essere assente e sostituita per esempio dalla reputazione, dal vantaggio sociale di essere ritenuti indispensabili ai destini della comunità. Le nuove forme di organizzazione del lavoro si riassumono incredibilmente nell’attualità di una frase di Confucio («Scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare neppure un giorno nella tua vita»). Qualcosa di impalpabile, di intangibile che riguarda il nostro grado di soddisfazione personale, la coscienza di un’utilità collettiva che trasforma anche il lavoratore più umile in un custode di valori civili, nello scalpellino della cattedrale millenaria. Ma alla fine, quell’“altro” di cui parliamo c’è solo se vi sono le competenze. O meglio la voglia di acquisirle. E non c’è un limite d’età per farlo. Nessuno è veramente tagliato fuori”.

“Dobbiamo dunque evitare, parlando di lavoro – ammonisce de Bortoli – che accada qualcosa di simile alla discussione lodevolmente avviata sul tema del purpose, ovvero le finalità aziendali al di là del profitto e della remunerazione dei soci. La sostenibilità ambientale e sociale c’è solo se l’azienda produce ricchezza. I suoi azionisti non si rassegnerebbero a perdere soldi pur nella consapevolezza di fare del bene. La shareholder value di Milton Friedman non è più di moda ma non è stata riposta nei cassetti della Storia da un impeto di generosità collettiva. D’accordo ma c’è dell’altro”.

“Le imprese con un welfare migliore e una diversa attenzione al clima aziendale, allo stato d’animo dei propri collaboratori, vanno meglio – analizza l’ex direttore del Corriere – Sono in grado di sviluppare con più soddisfazione i percorsi di ricerca e innovazione. Sviluppano un sentimento collettivo, un engagement coinvolgente e motivante. Contrastano con maggiore efficacia quel nomadismo aziendale (job hopping) che mina l’affermazione di una cultura aziendale più approfondita. Insomma, un buon lavoro si traduce anche nello stare bene insieme, nonostante la pandemia, aumentando la diffusione dello smart working, abbia introdotto una dinamica individualistica, molecolare, nei rapporti tra i dipendenti e l’azienda, ancora tutta da studiare e assimilare. Il lavoro da remoto è una risorsa, una condizione richiesta a gran voce. Una nuova dimensione di libertà nel lavoro. Spesso l’opportunità di lavorare da remoto condiziona un sì o un no a una proposta d’impiego. Ma la sua estensione indiscriminata può far venir meno quell’idea dell’impresa come comunità in cammino che trova forza e motivazioni proprio nella condivisione anche fisica di difficoltà e successi. La personalità di un lavoratore si promuove molto di più nel confronto con gli altri – e non necessariamente su temi professionali – che nell’arido seppur produttivo contatto della prestazione a distanza. L’azienda non è un insieme di atomi indipendenti e scollegati. E così una società. Si vive anche di emozioni, sorrisi, arrabbiature, liti e confronti. La tensione è partecipazione. Senza, è indifferenza, distacco, divorzio dalle scelte della società”.

“Vi sono altre rivoluzioni silenziose in corso che il libro segnala e porta alla luce – conclude, poi, de Bortoli – La dimensione aziendale conta. Eccome. È ancora direttamente proporzionale alle attese di un candidato, soprattutto se il suo focus è la ricerca, l’innovazione, l’internazionalizzazione. Ma le piccole e medie imprese trovano il loro riscatto nella maggiore capacità di assicurare un grado di soddisfazione immediato al dipendente, specie rispetto al territorio, alla comunità. Fattore a volte persino decisivo nelle scelte personali. Il cosiddetto work-life balance appare più facilmente raggiungibile. I rapporti umani sono più diretti e sinceri, meno mediati da un insieme di regole che spesso, arrivando dalla casa madre, appaiono distanti se non esotiche. Si affermano addirittura esempi di luoghi di lavoro, bossless, nei quali l’organizzazione è disciplinata dalle idee di chi ci lavora. Un’intelligenza collettiva in grado di autodirigersi. Un’utopia orizzontale. Oggi sperimentata nella produzione dei giochi. Ma è tutt’altro che un gioco”.

(in copertina, Thomas Pollock Anshutz, La pausa di mezzogiorno degli operai siderurgici, 1880)

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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