C’è un rischio dietro la sostituzione del Reddito di cittadinanza (Rdc) con l’Assegno di inclusione (Adi) e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) voluta dal governo Meloni. Anzi, un duplice rischio: quello di aumentare la povertà assoluta e, nello stesso tempo, concentrare la ricchezza nelle mani di pochi. Uno scenario che, se si concretizzasse, sarebbe devastante soprattutto per il Sud, dove inflazione e disoccupazione “mordono” più che al Nord.
Le novità introdotte dal governo Meloni puntano a contenere la portata delle misure di contrasto della povertà, riducendo la platea dei beneficiari da 2,1 a 1,2 milioni di nuclei familiari. In questo modo, lo Stato intende risparmiare 1,7 miliardi di euro. Il problema sta nel fatto che Adi e Sfl non garantiranno lo stesso livello di sussidio assicurato dal Rdc, facendo così sprofondare centinaia di migliaia di famiglie nel baratro dell’esclusione sociale.
A dimostrarlo sono i numeri contenuti in un’indagine condotta dalla Banca d’Italia. Nel 2020, anno della pandemia, il reddito medio delle famiglie superava i 39mila euro annui, superando quota 130mila per quelle più ricche e fermandosi a soli 7.50 per quelle più povere. Nello stesso anno, ai nuclei erano garantiti 277 di Rdc ai quali si aggiungevano altri sussidi come indennità per il Covid, reddito di emergenza, bonus per baby sitter e centri estivi, contributi per spesa e vacanze. Ovviamente, l’impatto dei sussidi era diverso a seconda del reddito delle famiglie: per quelle più povere il Rdc valeva 890 euro e i sussidi complessivamente considerati costituivano il 14,2% del reddito complessivo che, in mancanza, sarebbe sceso addirittura sotto quota 6.500 euro. Ciò dimostra come il Rdc abbia contenuto il disagio economico in un momento di estrema difficoltà come la pandemia.
Ma andiamo oltre. Dal 2016 al 2020, il reddito disponibile reale delle famiglie italiane è aumentato in media del 2,6%. Per i nuclei disagiati, però, l’incremento è stato di quasi 18 punti grazie alle misure di contrasto della povertà. Eliminando il Rdc, quella media del 2,6% si riduce all’1,8; se si sottraggono gli altri sussidi, si arriva all’1,5 col paradosso che gli unici a beneficiare di una crescita sono soltanto i più ricchi. Ma questi ultimi, in momenti di crisi, possono attingere ai propri risparmi. I poveri, invece, non hanno altra scelta se non quella di rinunciare a spese anche essenziali. Ed è proprio quello che oggi, complice l’inflazione, accade al Sud.
Secondo Svimez, infatti, 700mila meridionali non possono permettersi l’acquisto di farmaci e le cure odontoiatriche e questo fenomeno non risparmia Puglia e Basilicata, dove i nuclei in povertà sanitaria sono rispettivamente il 10,2 e l’11,8% del totale, mentre al Centro-Nord questo valore non supera mediamente l’8. Senza dimenticare che, secondo Action Aid, ben sei milioni di italiani versano in condizioni di povertà alimentare, cioè non sono in grado di fare un pasto completo almeno una volta ogni due giorni. E la quota di persone in condizione di deprivazione alimentare è più alta al Sud, dove sfiora il 21%.
Tutto ciò spiega bene i pericoli che si celano dietro il risparmio che lo Stato intende conseguire attraverso la soppressione del Rdc che, piaccia o meno, ha svolto una innegabile funzione di contenimento del disagio economico e sociale. Certo, la mancanza di controlli sul possesso dei requisiti da parte dei richiedenti, il flop delle politiche attive del lavoro, la scarsa utilità dei navigator e la mancata attivazione del progetti utili alla collettività da parte dei Comuni hanno esposto il Rdc a critiche spesso giustificate. Anziché abolirlo, però, sarebbe stato più saggio contenerne i costi e, nello stesso tempo, individuare strumenti per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il governo Meloni ha fatto scelte diverse: i poveri, soprattutto al Sud, non ne saranno felici.