Partiamo da un presupposto: la regolamentazione dei rapporti di lavoro va rivista anche alla luce dei recenti interventi della Corte costituzionale. E molto resta da fare sul fronte dei controlli. Ma siamo sicuri che il Jobs Act, per abolire il quale il Partito Democratico ha promosso un referendum, sia la strada giusta per ridurre il precariato in Italia, a cominciare dal Sud? Siamo sicuri che un eventuale ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori possa garantire maggiore stabilità? Sembra di no e per comprenderlo basta ripercorrere la storia recente e analizzare i numeri.
Al superamento della tutela reale prevista dall’articolo 18 e all’introduzione del contratto a tutele crescenti indicato dal Jobs Act si è arrivati, nel 2015, a conclusione di un lungo dibattito sulle caratteristiche del mercato del lavoro: basso tasso di occupazione regolare, troppi contratti a termine, imprese tendenzialmente restie ad assumere e superare la soglia dei 15 dipendenti.
Così, il 7 marzo 2015, il contratto a tutele crescenti è diventato operativo. Nello stesso momento, le assunzioni sono aumentate vertiginosamente fino a sfiorare quota due milioni alla fine di quell’anno e, nello stesso tempo, 500 mila contratti a termine sono stati trasformati in tempo indeterminato.
Merito del superamento dell’articolo 18? No. Decisiva è stata l’introduzione, a gennaio 2015, dell’esonero triennale che, in virtù della semplicità dei requisiti indicati, ha incentivato assunzioni e stabilizzazioni. Dal 2017 in poi, si è però assistito a un forte aumento dei contratti a termine: segno che le imprese continuano a preferire questa forma di accordo e che il contratto a tutele crescenti non è un sufficiente per far sì che le stesse imprese assumano a tempo indeterminato.
Successivamente, in seguito al decreto Dignità, le trasformazioni in contratto a tempo indeterminato sono aumentate nuovamente fino a superare le 700mila unità nel 2019. Parallelamente i licenziamenti, di cui ci si attendeva una impennata per effetto del superamento dell’articolo 18 e dell’introduzione del contratto a tutele crescenti, non sono cresciuti. Soltanto nei primi mesi del 2016 gli analisti hanno colto una modesta risalita, probabilmente dovuta alle tante aziende cinesi che hanno cominciato a licenziare per aggirare la troppo farraginosa procedura delle dimissioni online. Fatto sta che i licenziamenti non sono aumentati, prima grazie al miglioramento congiunturale dell’economia e poi al blocco imposto durante la pandemia; nel 2023 le risoluzioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono calate addirittura del 40% rispetto ai livelli registrati nel 2014.
Tanto basta per dimostrare come il Jobs Act non abbia determinato quel milione di licenziamenti preconizzato da qualche profeta di sventura. Ciò vuol dire che nel mercato del lavoro italiano va tutto bene? Ovviamente no. Anzi, la disciplina dei licenziamenti va rivista, ma in una prospettiva diversa da quella indicata dai referendum cui si è fatto cenno.
Sul punto, Pietro Ichino è stato chiaro e ha indicato la necessità di confermare la sanzione reintegratoria per il licenziamento determinato da motivi illeciti; per il licenziamento disciplinare, attribuire al giudice la scelta discrezionale tra sanzione reintegratoria e indennitaria; per i licenziamenti economici, prevedere la sanzione esclusivamente indennitaria; per il licenziamento nelle imprese fino a 15 dipendenti, portare da sei a 12 o 18 mensilità l’entità massima dell’indennizzo per le aziende con un fatturato oltre una certa soglia. Una riforma così concepita eviterebbe il referendum, raggiungendo un punto di equilibrio tra i diritti dei lavoratori e le esigenze delle imprese.