Il possibile stop alla Decontribuzione Sud ha provocato l’immediata levata di scudi da parte del mondo produttivo. A cominciare da quello pugliese, dove imprenditori e manager pubblici hanno rivolto un appello al ministro Raffaele Fitto affinché riveda questa decisione. Ma davvero la misura introdotta nel 2020 è così utile alle imprese? La risposta è sì. Anzi, quegli sgravi sono fondamentali non solo per le aziende, ma anche per gli stessi lavoratori.
Per comprendere il concetto, basta analizzare le caratteristiche e gli effetti di Decontribuzione Sud. La norma prevede un esonero contributivo pari al 30% per i datori di lavoro privati con sede in una delle otto regioni meridionali fino al 31 dicembre 2025; l’entità della “sforbiciata” si riduce al 20% nel biennio 2026-2027 e al 10 nel 2028-2029.
Gli effetti della misura sono incontestabili e conclamati dai numeri: ammontano a circa 3,7 milioni i lavoratori e le lavoratrici assunti nel Mezzogiorno.
Non solo: uno studio condotto da Edoardo Di Porto e Paolo Naticchioni dimostra, numeri alla mano, come Decontribuzione Sud abbia avuto un impatto positivo sul mercato del lavoro. I due economisti hanno confrontato le province al confine tra Centro e Mezzogiorno, partendo dall’assunto che le dinamiche di sviluppo di territori così vicini siano simili a meno di shock di politica economica come, appunto, Decontribuzione Sud. In queste aree gli sgravi non hanno avuto alcun effetto sull’occupazione fino all’autunno del 2021; da quel momento e fino alla fine del 2022, però, l’impatto della misura è diventato positivo e relativamente stabile, nell’ordine del 10%.
Decontribuzione Sud, inoltre, ha spiegato effetti positivi tanto per le imprese quanto per i lavoratori. Per le prime, il taglio dei contributi si è tradotto in una riduzione dei costi fissi legati alla gestione del personale e in una maggiore disponibilità di risorse da destinare allo sviluppo del business, all’adozione di nuove tecnologie e alla formazione del personale. Quanto ai lavoratori, gli incentivi hanno garantito l’assunzione di milioni di lavoratori in un’area, come quella del Mezzogiorno, già abbondantemente penalizzata dalla carenza di servizi e infrastrutture che sono decisivi per lo sviluppo economico.
Ecco perché cancellare Decontribuzione Sud significa compromettere un ambiente favorevole alla crescita delle imprese, agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale e, dunque, interrompere il percorso di riduzione delle disuguaglianze territoriali e promozione di una maggiore equità economica. E a nulla vale invocare l’argomento secondo il quale sarebbe l’Europa a sollecitare uno stop alla Decontribuzione Sud, perché è stata proprio Bruxelles, non più tardi del 15 dicembre scorso, ad autorizzare la proroga degli sgravi e l’aumento del massimale di erogazione per le imprese beneficiare. Ciò dimostra come l’Europa abbia riconosciuto il valore di una misura come Decontribuzione Sud nell’ottica del sostegno alle imprese meridionali in un contesto economico e politico, tra l’altro, ancora segnato da profonde incertezze.
Cancellare gli incentivi per le imprese meridionali, dunque, significa sabotare il rilancio del Mezzogiorno. È questo ciò che vuole il governo Meloni? È questo ciò che vuole Raffaele Fitto, che oltre a essere il ministro è innanzitutto un uomo del Sud? Imprese e lavoratori attendono una risposta.