Non se ne sentiva il bisogno, ma l’invito alla rivolta sociale che Maurizio Landini ha lanciato dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti conferma non solo la svolta oltranzista del leader della Cgil, ma anche la rottura dell’unità sindacale. Da tempo, infatti, si assiste a una contrapposizione tra Cgil e Uil da una parte, pronte a contestare le politiche del governo Meloni, e Cisl dall’altra, il cui atteggiamento si rivela puntualmente più conciliante. E questa frammentazione è pericolosa tanto per le conseguenze che un certo linguaggio violento può suscitare quanto per il rischio che l’attività sindacale non contribuisca a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone, a cominciare dal potere d’acquisto dei salari.
Su questo aspetto, d’altronde, i dati sono allarmanti. In Italia, tra 2013 e 2023, le retribuzioni lorde annue sono cresciute del 16%, mentre in Europa sono salite del 30,8%, di oltre il 22 in Spagna e Francia e del 35 in Germania. Il problema è che, soprattutto tra 2021 e 2023, le retribuzioni non hanno tenuto il passo dell’inflazione, visto che i salari sono cresciuti poco meno di 5 punti mentre l’indice armonizzato dei prezzi di oltre 17. Il risultato è che, nel nostro Paese, il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5% in dieci anni, mentre in Europa del 3 e in Paesi come la Spagna addirittura del 3,2. Tutto ciò evidenzia la necessità di incrementare le retribuzioni dei lavoratori italiani, a cominciare da quelli meridionali, e di sostenerne il potere d’acquisto.
Per centrare fondamentali obiettivi come questo sarebbero indispensabili unità e massa critica. E invece il fronte sindacale è spaccato. Il linguaggio utilizzato da Landini, come ha opportunamente evidenziato Dario Di Vico sul Foglio, avvicina la Cgil all’Autonomia del secolo scorso e ai Cobas di oggi. L’obiettivo di Landini è quello di parlare a una coalizione che va dai centri sociali ai movimenti cattolici del terzo settore, oltre che chiamare in piazza il mondo dell’antagonismo e del pacifismo in vista di uno sciopero generale contro la manovra finanziaria varata dal governo Meloni, come quello del prossimo 29 novembre, al quale si prevede un’adesione piuttosto bassa.
La Uil, invece, ha abbandonato il tradizionale ruolo di mediatrice tra Cgil e Cisl. Anzi, la storia insegna come la Uil sia tendenzialmente più vicina alla Cisl che alla Cgil, come rivelato dalla famosa questione del decreto di San Valentino del 1984, con cui il governo Craxi frenò gli scatti di scala mobile, oltre che dall’atteggiamento tenuto dal sindacato riformista a proposito delle manovre economiche e finanziarie varate dai vari governi Berlusconi. Infine c’è la Cisl, protagonista di una svolta che l’ha portata a presentarsi come la sigla del negoziato e della contrattazione, accentuando non poco quelle che era sempre stata una caratteristica del sindacalismo cattolico.
Ora non è questa la sede per schierarsi a favore dell’una o dell’altra strategia. Né per alimentare quelle indiscrezioni che vorrebbero Maurizio Landini in predicato di assumere la guida del centrosinistra parlamentare o Luigi Sbarra in odore di una candidatura con una delle formazioni che compongono il centrodestra. Ma è certamente il caso di notare come la fine dell’unità del sindacalismo confederale sia ormai un dato acquisito nel panorama politico italiano e quanto essa possa danneggiate, anziché rafforzare, le sacrosante battaglie in difesa dei lavoratori. A cominciare da quella per l’incremento dei salari e del loro potere d’acquisto. Per centrare questi due obiettivi, infatti, è indispensabile fermare il declino della rappresentanza sindacale: un problema che l’ormai evidente spaccatura tra le sigle della Triplice promette solo di aggravare.