L’anno prossimo, nel 2024, cadrà il decennale del Jobs Act, la legge 183 del 2014 che caratterizzò fortemente il governo di Matteo Renzi. Prendendo spunto dagli American Jobs Act che l’amministrazione Obama aveva proposto tra il 2011 e il 2012 negli Usa, il cuore della norma italiana era la promozione, anche in coerenza con le indicazioni europee, del contratto a tempo indeterminato quale forma comune di contratto di lavoro. L’articolo uno della legge dichiarava, infatti, che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
Ma questa formula ha funzionato? A quasi dieci anni dalla sua approvazione, il Jobs Act rimane uno dei provvedimenti più discussi nel dibattito politico italiano. Secondo i suoi sostenitori, ha fatto crescere l’occupazione; secondo i suoi detrattori, la precarietà.
Cosa dice la ricerca scientifica? Lo ha riassunto Pagella Politica ricordando innanzitutto che con l’espressione Jobs Act, in realtà, si indica tutta una serie di interventi voluti dal governo Renzi per una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro e per far crescere l’occupazione. Queste misure hanno modificato diversi ambiti del mondo del lavoro, ma gli interventi principali e più discussi sono stati sostanzialmente due.
Il primo verte sulla nuova disciplina del contratto “a tutele crescenti” con cui l’azienda che licenzia per motivi economici un lavoratore non è più tenuta a reintegrarlo, ma solo a garantirgli un indennizzo economico. In pratica, il Jobs Act ha limitato il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori oltre che a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
Il secondo intervento, invece, si è tradotto in una forte riduzione del costo del lavoro prevista dalla legge di Bilancio per il 2015 a favore dei lavoratori assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti.
Ora: secondo i sostenitori del Jobs Act, i posti di lavoro in Italia sarebbero cresciuti di circa un milione di unità tra il periodo in cui la riforma è stata in vigore e il 2018, quando è stata modificata dal primo governo Conte. Secondo i dati Istat, un aumento, in effetti, c’è stato. Sta di fatto che usare questo dato a sostegno del Jobs Act ha diversi limiti: in primo luogo, gli occupati sono una categoria più ampia di quella dei posti di lavoro. Ma, soprattutto, l’aumento degli occupati non dipende necessariamente dal Jobs Act. La crescita potrebbe essere dovuta a processi macroeconomici e a una generale ripresa dell’economia dopo la crisi del 2011.
Più in generale, gli studi sono concordi nel ritenere che il Jobs Act abbia avuto un impatto positivo sull’occupazione, ma limitato in alcuni ambiti lavorativi e, in ogni caso, non nell’ordine di grandezza rivendicato dai suoi promotori.
L’obiettivo del contratto a tutele crescenti era quello di creare occupazione stabile e a tempo indeterminato. In realtà, dati alla mano, sembra che l’aumento del numero di contratti a tempo indeterminato sia avvenuto in concomitanza con lo sgravio fiscale del 2015. E che, quindi, a diminuire il lavoro precario sia stata la riduzione del costo del lavoro più che il contratto a tutele crescenti.
Più nello specifico, poi: che impatto ha avuto il Jobs Act sulle donne e sui giovani, due categorie che in Italia fanno fatica a inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro? Per le donne, dopo un iniziale aumento dell’occupazione, c’è stato un calo. Per i giovani, la decontribuzione ha portato a un aumento delle assunzioni a tempo determinato, ma anche a una diminuzione dei contratti a tempo indeterminato. La via per l’inferno, in questo caso, è lastricata di buone intenzioni.