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Buoni pasti e lavoro su turni, la pronuncia della Cassazione

L'Alta Corte ha chiarito se spetta anche al personale che non può accedere al servizio mensa, ma presta comunque un turno superiore alle sei ore

L’ordinanza n. 2786/2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, è intervenuta su un tema che molti si sono trovati a trattare nei contenziosi di lavoro pubblico: la spettanza del servizio mensa o del buono pasto sostitutivo ai dipendenti turnisti, in particolare agli infermieri delle aziende sanitarie. La vicenda trae origine dall’ASP di Messina e ripropone un interrogativo ricorrente: il buono pasto spetta anche al personale che, per ragioni organizzative, non può accedere al servizio mensa, ma presta comunque un turno superiore alle sei ore?
La Corte ha fornito una risposta chiara, utile a chi si occupa di consulenza e contenzioso: il diritto non dipende dalla tipologia di turno, bensì dalla durata giornaliera della prestazione. Una precisazione che rafforza un orientamento giurisprudenziale ormai stabile e che merita attenzione anche in chiave strategica, tanto in sede di assistenza ai lavoratori quanto nella difesa delle amministrazioni.

Un gruppo di infermieri turnisti dell’ASP di Messina aveva contestato il regolamento aziendale, che limitava il beneficio del pasto – in mensa o tramite ticket – al solo personale non turnista con rientro pomeridiano. La Corte d’appello di Messina aveva accolto la domanda, riconoscendo il diritto ai buoni pasto per ogni turno superiore a sei ore, sul presupposto che tale soglia temporale comporta, in via generale, il diritto a una pausa destinata al pasto.
L’ASP aveva impugnato la decisione in Cassazione, sostenendo che la Corte territoriale avesse esteso in modo improprio il beneficio a tutti i dipendenti, senza considerare la specifica organizzazione dei turni e la possibilità di fruire effettivamente della pausa pranzo.

La Cassazione ha respinto il ricorso, ribadendo un principio già affermato in precedenti pronunce: il buono pasto ha natura assistenziale e trova giustificazione nell’esigenza di garantire il benessere psico-fisico del lavoratore. Non è un “premio” né un benefit legato alla produttività, ma un istituto destinato a consentire la fruizione del pasto quando la prestazione si protrae oltre le sei ore giornaliere.
Il discrimine, dunque, non è l’organizzazione del turno (mattutino, pomeridiano, notturno o spezzato), ma la durata complessiva della giornata lavorativa. Se il lavoratore supera le sei ore di attività, ha diritto al pasto, e laddove non possa accedere alla mensa, matura il diritto al buono sostitutivo. Una lettura che esclude differenze arbitrarie e rafforza l’uniformità di trattamento tra i dipendenti, anche a tutela dei turnisti, spesso penalizzati dalle rigide prassi interne.

Per chi assiste i lavoratori, l’ordinanza fornisce un supporto argomentativo solido: nelle cause future sarà possibile valorizzare la costante giurisprudenza che riconduce il diritto al buono pasto al solo superamento della soglia oraria. La difesa potrà quindi insistere sull’illegittimità dei regolamenti interni che subordinano il beneficio a criteri diversi, come il rientro pomeridiano o l’accesso materiale alla mensa.
Per chi, invece, assiste le amministrazioni o gli enti pubblici, la decisione impone una riflessione: resistere in giudizio su questo punto comporta un elevato rischio di soccombenza, con condanna alle spese e consolidamento di un orientamento ormai difficilmente scalfibile. In molti casi potrà risultare più opportuno suggerire soluzioni conciliative, o orientare le amministrazioni ad adeguare i regolamenti interni, evitando di generare contenziosi destinati a essere persi.
Anche per i consulenti del lavoro e per i magistrati del lavoro, l’ordinanza funge da parametro interpretativo: conferma l’integrazione necessaria tra contrattazione collettiva, normativa di legge e giurisprudenza, evidenziando come la ratio dell’istituto prevalga sulle restrizioni regolamentari.

Non va sottovalutato, infine, l’aspetto processuale: la Cassazione ha condannato l’ASP di Messina a 8.000 euro di compensi oltre accessori. Una scelta che segnala chiaramente come la Suprema Corte non intenda avallare resistenze pretestuose a orientamenti consolidati.
In prospettiva sistemica, la decisione rafforza il principio di uguaglianza di trattamento e riconferma il buono pasto come strumento funzionale alla salute del lavoratore, non come semplice beneficio economico. È un messaggio forte, che invita tutti noi a collocare il tema nel più ampio contesto del diritto alla tutela della persona e della dignità nel lavoro.

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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