Minimi salariali definiti per legge, strumenti per integrare i redditi dei lavoratori, incentivi per spingere le imprese a pagare stipendi dignitosi, più vigilanza sui dati comunicati alle Pubbliche Amministrazioni e revisione degli indicatori europei della povertà: ecco le cinque proposte elaborate dal gruppo di lavoro sugli interventi e sulle misure di contrasto alla povertà lavorativa. Da direttore generale dell’Associazione nazionale aziende e professionisti (Anap), non posso che condividere le idee messe in campo, ma a patto che si tramutino in misure concrete, complementari e di rapida applicazione.
A imporlo sono i dati sulla povertà lavorativa in Italia. Negli ultimi anni la sua incidenza è aumentata dal 10,3 al 13,2%, imponendo duri sacrifici soprattutto ai lavoratori autonomi e a quelli a tempo parziale. Non solo: l’indice di povertà si è attestato al 14,2% per gli uomini e all’11,8 tra le donne, a ulteriore conferma del gap tra lavoratori e lavoratrici.
In questo contesto, ulteriormente aggravato dalla crisi economica legata al Covid e dall’atavico divario economico tra le diverse aree del Paese, sono indispensabili dei correttivi. Il primo non può che essere la definizione di minimi salariali imposti per legge o strutturati in griglie calibrate sui contratti collettivi. La misura dovrebbe riguardare, almeno inizialmente, un numero limitato di settori economici in modo tale da rendere possibile la valutazione del suo impatto. Ma non c’è dubbio sul fatto che il salario minimo sia ormai necessario per evitare che non solo i disoccupati, ma anche migliaia di lavoratori imbocchino il tunnel di povertà e disperazione. Strumento necessario, dunque, ma non sufficiente. Già, perché in aggiunta bisogna prevedere la possibilità di integrazione del reddito dei lavoratori. Serve uno strumento unico che assorba il bonus da 80 euro previsto per i dipendenti e la disoccupazione parziale e sia coerente con reddito di cittadinanza e assegno unico per i figli. Insieme con il minimo salariale, questa misura sarebbe un ottimo antidoto al lavoro povero.
Parallelamente, le imprese vanno spinte a pagare salari adeguati. In questa prospettiva, utile potrebbe essere un sistema di “name and shame” per le aziende che non rispettano la legge oppure iniziative per favorire l’accesso dei lavoratori agli strumenti di sostegno del reddito. Altrettanto urgenti sono il potenziamento della vigilanza sui dati che imprese e lavoratori comunicano alla Pubblica Amministrazione, visto che si tratta di indici del rischio di impresa e di anomalie da correggere, e la revisione dell’indicatore europeo della povertà lavorativa, che deve prendere in considerazione anche chi sia stato occupato una sola volta in un anno e non solo chi abbia prestato servizio per almeno sette mesi e viva in un nucleo familiare il cui reddito disponibile sia inferiore del 60% a quello medio nazionale. Non c’è tempo da perdere: in gioco c’è il futuro di migliaia di lavoratori e famiglie, oltre che la tenuta economico-sociale del Sud e dell’Italia.