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Morire di lavoro nel 2025: perché continuiamo a fallire sulla sicurezza

In Europa, le vittime sono circa 3.300 l'anno. Ma in Italia se ne contano quasi un terzo del totale

Morire per lavorare oggi è assurdo, impensabile. Eppure accade ancora. Ogni volta che si verifica una tragedia, politica, associazioni e opinione pubblica si indignano. Si invocano nuove leggi, più controlli, più formazione, più sanzioni. Tutto corretto, in teoria. Il problema è che questo copione si ripete da quindici anni, con risultati praticamente fermi.

Dal 2010 l’Italia registra in media circa 1.000 morti sul lavoro ogni anno.

In Europa le vittime sono circa 3.300: il nostro Paese, da solo, rappresenta quasi un terzo del totale.

Numeri che non possono essere ignorati e che mostrano l’inefficienza delle misure adottate finora. Se un Paese con regole tra le più stringenti d’Europa continua ad avere un tasso di mortalità così alto, significa che qualcosa non funziona. E che gli interventi messi in campo non sono né sufficienti né adeguati, soprattutto per le piccole imprese, dove gli adempimenti sono complessi e spesso difficili da applicare.

Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: tanta formazione, tante prescrizioni, tante carte… e tanti morti.

Un dato positivo: la lunga discesa delle morti sul lavoro

Per dovere di cronaca, va detto che dagli anni ’60 agli anni 2000 i morti sul lavoro hanno registrato un calo drastico.
Il grafico che riportiamo mostra l’andamento dei decessi per 100.000 occupati: una riduzione netta, frutto delle grandi trasformazioni industriali e delle prime normative sulla sicurezza.
Ma dal 2000 questa curva si è stabilizzata. Non scende più.
Le misure che hanno funzionato per 40 anni, oggi non bastano più.

Italia – Morti sul lavoro per 100.000 occupati (medie decennali) (Fonte Università Cattolica – Osservatorio CPI)

I tre pilastri attuali della prevenzione

Il sistema italiano di prevenzione si regge su tre strumenti principali:
1. Formazione
2. Controlli
3. Sanzioni
Vediamoli più da vicino.

Formazione: tanta, ma spesso inefficace

Oggi la formazione non sempre produce i risultati attesi.
Spesso è svolta da formatori poco competenti nella comunicazione, e si riduce a un mero scambio: il docente riceve il compenso, l’azienda riceve l’attestato.
Ma la formazione dovrebbe portare a consapevolezza e cambiamento di comportamento, non alla semplice stampa di un certificato.
Una buona formazione in sicurezza dovrebbe:
1. Rendere i lavoratori consapevoli dei rischi.
2. Sviluppare comportamenti realmente sicuri.
3. Ridurre infortuni, incidenti e near miss.
4. Chiarire ruoli e responsabilità (datore di lavoro, dirigente, preposto, RSPP, RLS).
5. Promuovere l’uso corretto dei DPI.
6. Abituare all’osservazione dell’ambiente e alle segnalazioni.
7. Preparare alle emergenze.
8. Rafforzare la cultura della sicurezza.
9. Garantire conformità alle norme.
10. Migliorare la qualità del lavoro e del clima aziendale.
Un processo formativo è davvero efficace solo quando cambia un comportamento, non quando consegna un attestato.

Controlli e sanzioni: servono, ma non bastano

Quando un’azienda non è in regola, la risposta è quasi sempre la stessa: sanzioni.
Ma davvero pensiamo che le multe costruiscano cultura?Un sistema basato solo sulla punizione non crea consapevolezza: genera burocrazia, poco altro.

Il ruolo complesso dell’RSPP

L’RSPP è una figura chiave, ma nelle piccole aziende il ruolo viene spesso svolto dal datore di lavoro stesso, da un dipendente o da un professionista esterno che, di fatto, può trovarsi senza reale potere decisionale.
Quando un lavoratore non rispetta le procedure, l’RSPP può segnalare, richiamare, avviare il percorso disciplinare.
Ma arrivare fino al licenziamento genera forse cultura della sicurezza?
La risposta è evidente: no.

Il vero nodo: il comportamento umano

Da un lato abbiamo formazione inefficace nei risultati, dall’altro controlli e sanzioni. Manca una figura capace di analizzare i meccanismi che portano i lavoratori a comportarsi in modo rischioso, anche quando conoscono procedure e regole.

Negli anni del vecchio Decreto 626/94 il problema era la mancanza di DVR, formazione e DPI. Oggi, il problema è diverso: gli strumenti ci sono, ma non incidono sul comportamento.

Per prevenire davvero gli infortuni bisogna iniziare a capire come funziona il cervello, perché gli esseri umani prendono scorciatoie, sottovalutano il rischio, cercano di “far presto”, ignorano segnali evidenti. Ed è proprio di questo che parlerò nel prossimo articolo.

 

 

 

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