Secondo Riccardo Maggiolo, consulente, giornalista, fondatore di Job-Club, una start up che affianca coloro i quali sono alla ricerca di un lavoro, la fine del lavoro è dietro l’angolo.
Ha motivato questa sua convinzione in un lungo articolo apparso sull’Huffington Post in cui, tra l’altro, ha ripreso un post di Elon Musk in cui si legge: “L’Intelligenza artificiale e i robot rimpiazzeranno tutti i posti di lavoro. Lavorare sarà un’opzione. Per esempio coltivando i propri ortaggi invece di comprarli al mercato”.
A questo post ha risposto tra gli altri il senatore Usa Bernie Sanders dicendosi d’accordo ma aggiungendo: “Cosa accadrà quando le persone non avranno più un lavoro e quindi un reddito?”. Forse dovranno coltivarsi le patate per non patire la fame, verrebbe da chiosare.
“Musk e Sanders – ha argomentato, quindi, Maggiolo – si trovano agli estremi opposti dello spettro politico americano, eppure sul futuro prossimo paiono concordare: nei prossimi anni l’automazione spazzerà via milioni di posti di lavoro. Un’idea che è stata corroborata in questi giorni da un articolo del New York Times, secondo cui Amazon si starebbe preparando ad automatizzare il 75% dei suoi processi operativi, rinunciando così ad assumere 160mila lavoratori entro il 2027 e ben 600mila entro il 2033. L’articolo, che prende le mosse da un documento interno trapelato, sottolinea come l’azienda si starebbe anche preparando al contraccolpo di immagine, evitando fin da oggi termini come “automazione” e “intelligenza artificiale” preferendogli invece espressioni come “cobot”.
Amazon ha replicato alla pubblicazione dell’articolo del Times facendo sapere che il documento trapelato “riflette la prospettiva solo di un team e non di tutta l’azienda”. Il che ha senso e può anche essere vero, ma è pure quello che ci si aspetterebbe dicesse Amazon se questi fossero effettivamente i suoi piani. Ciò che è davvero interessante notare, invece, è che, almeno negli Stati Uniti, la retorica per cui l’automazione e l’innovazione creano sempre più posti di lavoro di quanti non ne sostituiscano sembra oramai minoritaria per non dire in estinzione. Anche l’economista premio Nobel Darren Acemoglu si è detto convinto che presto uno dei più grandi datori di lavoro americani si tramuterà in un “distruttore di lavoro netto”.
Mentre da noi sono ancora in molti ad affermare che il futuro debba passare per la formazione tecnica e tecnologica avanzata, Oltreoceano pare che sempre più persone vedano i limiti di questa idea. Ammesso infatti che si sappia esattamente di cosa ci sarà bisogno nel mercato del lavoro tra 5-10 anni, pare davvero poco credibile poter far accedere a posizioni tecniche specialistiche masse di persone tanto più con un’età media sempre più avanzata. D’altronde, i lavori specialistici sono per definizione per pochi, e già oggi vediamo come molto credibile la possibilità che vadano in crisi professioni che fino a ieri erano indicate come le più sicure, quali grafici digitali e programmatori informatici.
Ecco allora che la domanda, drammatica ed epocale, non pare più aggirabile: che tipo di economia e soprattutto di società potremmo immaginarci in un mondo post-lavoro?
Secondo Musk e altri, l’avanzamento tecnologico toglierà sì il lavoro, ma diminuirà anche drasticamente il valore dei beni, per cui vivremo nell’abbondanza materiale. Ma, anche ammesso che ciò sia vero, dove troveranno il reddito le persone per comprare quello che gli servirà? E che tipo di economia può essere quella che si basa su margini così bassi in economie di scala così enormi?
Per Bernie Sanders e altri, invece, l’unica risposta possibile è la tutela dei posti di lavoro e la tassazione dei grandi patrimoni. Ma anche se – specie negli Stati Uniti – dei correttivi in questo senso sembrano oramai più che auspicabili, il rischio è che nel tempo aumentino ancora di più la spaccatura tra lavoratori regolari e tutelati e lavoratori irregolari e senza tutele. Senza contare che una tassazione troppo aggressiva del grande capitale avrebbe l’effetto di farlo spostare in massa verso paradisi fiscali e di incentivare ancora di più la conservazione dei patrimoni invece del loro proficuo utilizzo per creare posti di lavoro.
Il vero problema per Maggiolo è che ci sono lavori che non sono davvero sostituibili dall’automazione e di cui avremo sempre più bisogno, ma che per diverse ragioni non sono ripagati dal mercato. Si tratta soprattutto di lavori di cura, in cui l’empatia e la capacità di interpretare segnali deboli è fondamentale; oppure certe attività di produzione e manovalanza, in cui gli esseri umani grazie alle loro spiccate capacità manuali e spaziali rimarranno a lungo più convenienti degli automi; oppure ancora lavori culturali che richiedono una spiccata sensibilità e genuina creatività, se non presenza fisica. Il lavoro e la sua richiesta, quindi, non spariranno del tutto, ma questo non dovrebbe consolarci; anzi.
Quello che infatti possiamo aspettarci per il prossimo futuro è l’estremizzazione di un processo che già abbiamo potuto osservare negli ultimi decenni. Vale a dire l’aumento di lavori nel terziario avanzato, con la moltiplicazione di livelli manageriali e di passaggi burocratici, per produrre una ridda di posti di lavoro in catene del valore lunghissime e in cui le persone si trovano a svolgere compiti il cui vero senso e valore aggiunto gli sfugge – non di rado perché in fondo non c’è. Dall’altra parte, un lavoro sempre più sfruttato e precario in quegli ambiti in cui l’automazione non funziona così bene oppure non è ancora davvero conveniente rispetto a un essere umano (specie se pagato poco o pochissimo).
Il punto è che una società siffatta non può credibilmente soddisfare l’inesausta fame di consumi del tardo capitalismo. La classe media, che con la sua fame di rivalsa e arrivismo ne ha alimentato le fortune, sarà infatti sempre più sparuta, mentre i ricchi pur con enormi capacità di spesa saranno davvero troppo pochi per poter sostenere intere economie.
L’unica soluzione possibile per salvare il modello sarebbe quella di continuare ad alimentare fino all’estremo i consumi posizionali o consolatori: quelli cioè che servono a darsi una posizione sociale (auto, vestiti, titoli di studio…) e a distrarsi da una vita altrimenti deludente e frustrante (cibo, alcol, gioco d’azzardo…). Ma per una vasta classe popolare sempre più impoverita e bloccata alla base della scala sociale i primi potrebbero essere illusori o fuori portata, mentre i secondi creerebbero al sistema molti più problemi di quanti ne risolverebbero.
Il vero paradosso è che ci troveremo, ancora più di ora, in un mondo ricco abitato da persone povere. L’abbondanza, sia economica che materiale, sarà enorme eppure, senza il motore del lavoro a distribuirla tramite il reddito, non sarà in grado di generare vera prosperità. A questo si affiancherà anche una grande crisi “spirituale”: tra chi avrà un lavoro tutelato ma soprattutto performativo, e chi invece farà un lavoro umile ma sfruttato, in ben pochi riusciranno a trovare senso e soddisfazione nella loro vita. Lenire questa sofferenza con l’intrattenimento spicciolo o con la fuga in mondi virtuali immersivi potrebbe non essere sufficiente, e la rabbia potrebbe degenerare in ampi movimenti sociali e scontri politici violenti di stampo neo-luddista.
Una soluzione per evitare questo scenario ci sarebbe, scrive Maggiolo, ma la sua efficacia potrebbe variare molto a seconda di come sarà implementata. Si tratterebbe di slegare il lavoro dal reddito tramite un reddito base universale: una quota di denaro sufficiente a coprire i bisogni di base elargita mensilmente e senza condizioni a ogni cittadino. Paradossalmente, a questa soluzione sembrano più inclini i signori della Silicon Valley e i loro accoliti. Lo stesso Musk si è detto più volte favorevole in passato. D’altronde, probabilmente confidano che in questo modo sarà lo Stato a fornire ai consumatori quella capacità di spesa che è necessaria per la prosperità delle loro aziende, mentre loro potranno continuare a implementare meccanismi di sorveglianza e a stimolare bisogni indotti.
Ma, se ben progettato e messo in atto, il reddito di base potrebbe anche avere l’effetto opposto. Anzitutto potrebbe mettere le persone nella condizione di non essere più ricattabili, e quindi di rifiutare il lavoro sfruttato. Poi consentirebbe di alimentare consumi generativi, rispondendo a veri bisogni come quelli di salute curandosi prima e meglio, oppure favorendo la nascita di piccole attività imprenditoriali locali. La sicurezza che ne deriverebbe potrebbe anche ridurre di molto la criminalità e la sua attrattiva, oltre a rilanciare la natalità cominciando a risolvere l’enorme problema demografico.
In generale, comunque, secondo Maggiolo, il reddito base universale pare al momento l’unica credibile mediazione di prospettiva tra la forza generatrice del capitalismo e le sempre più stringenti necessità di equità sociale. Non è tanto un problema di risorse: quelle ci sarebbero già ora, e ancora di più ci saranno in futuro. Il vero punto è politico e culturale: è avere il coraggio, noi tutti, di proiettarci in un modello nuovo, in grado di farci prosperare in un contesto di abbondanza e non più di scarsità; in un mondo in cui più che generare nuove risorse l’imperativo è distribuire efficacemente. Una sfida non da poco, ma che dovremmo necessariamente cominciare quanto meno a discutere come affrontare. Soprattutto qui in Italia.

