
Ora che arriva il pieno delle vacanze estive, torna più forte che mai una domanda: il turismo davvero è il petrolio dell’Italia, la benzina con la quale si muove il nostro mondo del lavoro? Istintivamente, siamo portati a rispondere di sì notando l’overtourism che affligge soprattutto in questi giorni la maggior parte delle nostre mete turistiche. Tuttavia, calcoli alla mano, bisognerebbe molto ridimensionare questa convinzione. Il think tank dell’economista Michele Boldrin e dell’imprenditore Alberto Forchielli (Drin Drin), ad esempio, è convinto che pensare che il turismo possa assicurarci sviluppo e lavoro è “una bufala allucinante”.
“Secondo alcuni, il turismo rappresenterebbe il 18% del Pil, un quinto della nostra economia. Ma, sebbene si tratti di un settore difficile da misurare, nel 2019, il suo valore aggiunto valeva poco meno di 100 miliardi di euro, ovvero solo il 6% del Pil. Questo dato ha perfettamente senso se si considera che il contributo del turismo al Pil delle Maldive, ad esempio, non supera comunque il 21%, secondo i dato della Banca Mondiale. Dunque, chi sostiene la tesi del 18% del Pil accosta il nostro Paese a economia prettamente turistiche, prive di un comparto industriale, commercial e finanziario paragonabile al nostro”.
Ora, per Boldrin e Forchielli, “il punto non è soltanto ridimensionare il peso del turismo nella nostra economia, ma anche mostrarne tutte le fragilità. Non solo il turismo è un settore estremamente ciclico e stagionale, ma presenta anche un moltiplicatore molto basso: secondo uno studio della Banca d’Italia, un aumento del 10% della spesa turistica genererebbe una maggior crescita che varia tra lo 0,2% e lo 0,4% nel decennio successivo”.
Non esattamente un petrolio, insomma. Anche perché – sottolineano sempre quelli del gruppo Drin drin – quelli del turismo, di solito, sono salari da fame:
“Ristoranti e alloggi garantiscono salari medi sensibilmente inferiori a quelli di altri settori come quello manufatturiero, impiegatizio o scientifico”.
Come mai? La risposta di Boldrin e Forchielli è questa: “I salari bassi sono dovuti alle debolezze strutturali del settore turistico. Gli operatori, spesso piccole e medie aziende, sono prive di grandi risorse, cercano manodopera stagionale e poco qualificata: manca, quindi, l’incentivo a offrire salari alti, maggiori garanzie o opportunità di formazione. Inoltre, i clienti del settore turistico sono molto sensibili al prezzo e gli operatori cercano di rimanere competitivi e mantenere alti i margini abbassando i costi, tra cui i salari dei dipendenti. Infine, lo scarso livello di innovazione impedisce la crescita della produttività necessaria a far aumentare gli stipendi”.
Gli effetti collaterali del turismo, in ogni caso, non finiscono qui. Stando al report di un altro think tank, Tortuga, per ogni 1% in più di penetrazione di Airbnb nel mercato, i prezzi delle case aumentano del 6,7% e gli affitti del 5,7%. Il turismo, quindi, crea un danno reale ai residenti.
In sintesi, quindi: il turismo è un settore trainato, non trainante. E c’è molta retorica in chi vede in esso la panacea di tutti i mali del nostro mondo del lavoro.