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Il riconoscimento degli Stati spiegato attraverso il caso Palestina

Negli ultimi giorni la scena diplomatica internazionale ha visto un’accelerazione significativa: Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo hanno annunciato il riconoscimento della Palestina come Stato, mentre Malta ha dichiarato che lo farà in sede ONU.

Con questi passi il numero dei Paesi che riconoscono formalmente la Palestina sale oltre 150, una maggioranza netta all’interno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’Italia e la Germania hanno scelto per ora la cautela, legando l’eventuale riconoscimento a condizioni politiche precise, come l’esclusione di Hamas dalla leadership palestinese e la liberazione degli ostaggi. Anche gli Stati Uniti mantengono la linea storica del rinvio a futuri negoziati di pace.

Il tema solleva una domanda cruciale: cosa significa esattamente “riconoscere uno Stato” dal punto di vista del diritto internazionale? È un atto politico, un atto giuridico o entrambe le cose? E quali conseguenze ha per l’entità riconosciuta e per la comunità internazionale?

Secondo il diritto internazionale, i criteri per definire l’esistenza di uno Stato sono stati fissati nella Convenzione di Montevideo del 1933: occorre una popolazione permanente, un territorio definito, un governo effettivo e la capacità di intrattenere relazioni con altri Stati. Questi elementi compongono l’ossatura giuridica della statualità. Tuttavia, la prassi internazionale mostra che non basta soddisfare tali requisiti per essere pienamente considerati parte della comunità internazionale: serve anche che altri Stati prendano atto, formalmente o meno, della nuova realtà.

Qui nasce il dibattito tra due teorie classiche. La prima, detta “dichiarativa”, sostiene che uno Stato esiste nel momento in cui possiede i requisiti oggettivi: il riconoscimento da parte di altri non è che una presa d’atto, una sorta di dichiarazione formale di un fatto già compiuto. Questa impostazione è oggi la più accettata in dottrina, perché garantisce stabilità e certezza giuridica: l’esistenza di uno Stato non può dipendere dal gradimento politico di altri. L’altra teoria, detta “costitutiva”, attribuisce invece al riconoscimento un ruolo creativo: uno Stato diventa pienamente soggetto del diritto internazionale solo nel momento in cui altri Stati lo riconoscono, perché è da quel momento che può esercitare diritti concreti come stipulare trattati o far valere immunità. In questa visione, il riconoscimento non è solo una dichiarazione ma un atto giuridico che “accende” le prerogative internazionali nei confronti di chi lo concede.

Nella pratica, le due visioni non si escludono. Molti giuristi sostengono che la statualità derivi dai fatti, ma che il riconoscimento, soprattutto se ampio e collettivo, sia in grado di consolidare quella statualità, rendendola più effettiva. La Commissione Badinter, durante la dissoluzione della Jugoslavia, ha chiarito che il riconoscimento è un atto discrezionale, ma deve rispettare i principi fondamentali del diritto internazionale come il divieto dell’uso della forza e la tutela dei diritti umani.

La vicenda palestinese dimostra come il riconoscimento non sia un semplice gesto simbolico. Nel 2012, l’Assemblea generale dell’ONU ha attribuito alla Palestina lo status di “Stato osservatore non membro”, riconoscimento politico che le ha consentito di aderire a diversi trattati internazionali e soprattutto allo Statuto della Corte penale internazionale. Questo passo ha rafforzato la sua possibilità di agire sulla scena giuridica globale, portando persino all’apertura di inchieste presso l’Aia. Con i riconoscimenti più recenti, soprattutto provenienti da Paesi occidentali che finora erano stati riluttanti, la Palestina guadagna ulteriore legittimità e capacità di agire nelle relazioni diplomatiche, aumentando la pressione politica sugli Stati che ancora si oppongono.

Va chiarito che il riconoscimento non equivale all’ammissione come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. La Carta dell’ONU stabilisce che per diventare membro serve la raccomandazione del Consiglio di Sicurezza e il voto dell’Assemblea generale. Qui si gioca la partita più difficile: il veto dei membri permanenti, in particolare degli Stati Uniti, ha finora bloccato l’ingresso della Palestina nell’organizzazione come Stato a tutti gli effetti.

Il riconoscimento resta quindi un atto a metà strada tra diritto e politica. Da un lato conferma l’esistenza giuridica di uno Stato, dall’altro consolida o limita la sua capacità effettiva di agire nello scenario internazionale. La Palestina rappresenta l’esempio più attuale di come, in un mondo diviso da interessi geopolitici, il riconoscimento possa diventare uno strumento potente, capace di rafforzare la posizione di un popolo e di aprire – o chiudere – spazi di legittimità internazionale.

In definitiva, il riconoscimento di uno Stato non “crea” la realtà, ma contribuisce a darle forma e solidità. Nel caso palestinese, la crescente ondata di riconoscimenti conferma che, al di là delle dispute politiche, il diritto internazionale resta un terreno di confronto e di costruzione: un linguaggio comune che, pur imperfetto, continua a segnare i confini della legittimità globale.

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Autore - Articoli pubblicati: 11

Studente di Giurisprudenza, con esperienza amministrativa e interesse per ambito legale, aziendale e risorse umane.

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