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Il solito copione: convocare “le solite parti sociali” e fingere cambiamento

La convocazione da parte della ministra Calderone delle solite sigle sindacali dopo il referendum non può soddisfare

Non bastava l’esito poco brillante del referendum sul lavoro. La prima mossa della ministra Marina Calderone è stata – prevedibilmente – convocare “le solite parti sociali” il 13 giugno, per discutere di un nuovo patto per il lavoro. Un gesto che sa di déjà-vu e che, soprattutto, ignora l’evidente mutamento della rappresentanza sindacale nel Paese.

Oggi, quelle stesse parti sociali – CGIL, CISL e UIL – non rappresentano più un fronte compatto. La CGIL ha subito una sconfitta netta nel recente referendum; la UIL è politicamente e mediaticamente afona; la CISL ha preso posizioni divergenti, dettate più da logiche interne e vicinanze governative che da autentiche esigenze dei lavoratori. Una frammentazione palese che svuota di senso il confronto convocato ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n. 165/2001, che prevede il ruolo della concertazione solo laddove vi sia un’autentica rappresentanza plurale e legittimata.

Nel frattempo, restano esclusi dal tavolo tutti quegli attori sindacali – Confederazioni autonome, sindacati di base, realtà territoriali e categoriali indipendenti – che pure operano nel rispetto dell’art. 39 della Costituzione e hanno una presenza radicata nei luoghi di lavoro. Si tratta di realtà che, sebbene prive di rappresentanza istituzionalizzata, toccano con mano quotidianamente le criticità del mercato del lavoro e raccolgono istanze che i canali tradizionali non intercettano più.

Non è un buon segnale. È il solito teatrino istituzionale: incontri, note stampa, apparizioni televisive, e poi – come sempre – il nulla. Nessuna proposta concreta. Nessuna reale apertura al pluralismo previsto, tra l’altro, dalla giurisprudenza costituzionale che ha chiarito come “la libertà sindacale non possa essere ridotta a una riserva per pochi soggetti riconosciuti dal sistema” (Corte Cost. n. 231/2013).

Il tema della rappresentanza è centrale. Lo ricorda anche la legge n. 150/2023, che ha ribadito il valore del confronto con “tutte le espressioni significative del mondo del lavoro”. Ma allora perché questo pluralismo viene sistematicamente ignorato? Perché continuare a convocare sempre gli stessi interlocutori, nonostante sia evidente che il loro radicamento sociale si sia ridotto?
Se davvero il Governo vuole affrontare temi come sicurezza, produttività, contrattazione e salario – come annunciato dalla ministra – allora serve un cambio di passo. Serve un confronto vero, aperto, democratico. Non basta citare i “24 milioni di occupati” se poi non si parla del dilagare dei contratti atipici, delle finte partite IVA, della crescente polarizzazione tra lavoro povero e lavoro garantito. Dati che anche l’INAPP e l’ISTAT hanno confermato, indicando un mercato del lavoro diviso e distorto.

Finché non si darà voce a chi rappresenta l’altra metà del sindacalismo italiano, il rischio è quello di restare chiusi in un loop autoreferenziale, privo di sbocchi. Un gioco delle parti che continua a lasciare fuori le soluzioni più innovative e concrete. E che si allontana sempre di più dallo spirito originario dell’art. 3 della Costituzione: “rimuovere gli ostacoli […] che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori”.

Il tempo delle “solite parti” è finito. Il lavoro vero – quello vissuto ogni giorno, tra turni, infortuni e salari da fame – merita di essere ascoltato. E rappresentato.

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Autore - Articoli pubblicati: 196

Segretario Generale Confederazione SELP

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