
La tragica fine di Satnam Singh e l’inchiesta firmata da Mara Chiarelli per “L’Edicola” hanno riacceso i riflettori sullo sfruttamento degli immigrati nel settore agricolo e su quanto le eccellenze alimentari italiane dipendano sempre di più dal lavoro di braccianti stranieri. Basta riflettere su un dato: in Italia sono impiegati regolarmente due milioni e 400mila immigrati, più del 10 per cento del totale degli occupati. Ora la domanda è: lo sfruttamento da parte dei caporali è un destino ineluttabile per tanti disperati che nel nostro Paese si trasferiscono in cerca di fortuna?
Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo analizzare lo scenario. Uno scenario tragico, aggiungerei: la voracità di alcuni imprenditori, la tolleranza del lavoro irregolare e l’insufficienza delle ispezioni hanno fatto in modo che il caporalato dilagasse soprattutto in regioni a vocazione agricola come Puglia e Basilicata. Con “effetti collaterali”, tra l’altro, drammatici soprattutto per gli stranieri: sono cento le vittime soltanto in questa prima metà del 2024.
Le cause del fenomeno, però, sono più profonde e legate alla frammentazione, arretratezza e disorganizzazione dei produttori, alla scarsa capacità contrattuale nei confronti della grande distribuzione e alla bassissima capacità di innovazione tecnologica che, come ha giustamente osservato il sociologo Maurizio Ambrosini, sono compensate dallo sfruttamento del lavoro e dalla quasi inesistente attenzione a come i braccianti vengono assunti, trattati e alloggiati. È così che nel 2022, nel settore agricolo italiano, si è toccata quota 362mila lavoratori che coprono il 31,7% delle giornate di lavoro registrate. Si tratta di numeri esorbitanti eppure parziali, visto che non tengono conto del lavoro sommerso e della registrazione fittizia di lavoratori italiani per accedere alle risorse della protezione sociale destinate al settore.
Lo sfruttamento, dunque, sembrerebbe la regola. Eppure non è così. Una ricerca condotta dal centro studi Confronti per conto della Fai Cisl ha analizzato nove casi locali, incluso quello del Foggiano dove il caporalato è storicamente molto diffuso. In gran parte di queste realtà, l’economia agricola si regge sullo sfruttamento degli immigrati che, tra l’altro, sono confinati in ghetti privi persino dei servizi igienici e dell’assistenza sanitaria. Altrove, però, non è così: in Trentino migliaia di lavoratori stagionali, provenienti soprattutto dall’Europa orientale, sono assunti quasi sempre regolarmente e alloggiati in modo dignitoso; nel Bergamasco molti lavoratori indiani sono impiegati nella zootecnia con impieghi stabili, contratti regolari e alloggi decenti; in Emilia-Romagna si tende a stabilizzare quanti prestano servizio nell’industria delle carni.
Che cosa vuol dire? Che lo sfruttamento del personale straniero non è la regola. Purché, ovviamente, sussistano alcune condizioni. Le parti sociali devono raggiungere intese soddisfacenti, mentre le istituzioni pubbliche devono esercitare adeguatamente il loro ruolo di controllo e di promozione dello sviluppo così da garantire ai lavoratori migliori condizioni d’impiego e anche migliori condizioni accessorie, prima fra tutte un’adeguata sistemazione alloggiativa. A meno che non si voglia continuare ad assistere a tragedie come quella di Latina o allo sfruttamento disumano che dilaga nella campagne pugliesi e lucane.