Personale schiavo degli algoritmi e senza diritti: un’indagine sul modello che dilaga negli Stati Uniti e arricchisce solo le grandi piattaforme.
Davvero la flessibilità può essere barattata con la mancanza di tutele, un reddito variabile e la dipendenza da opachi algoritmi? La domanda è legittima e riguarda la cosiddetta gig economy, cioè quel modello economico basato su impieghi temporanei che non prevedono vincoli contrattuali a lungo termine.
Come funziona la gig economy? I lavoratori accettano incarichi a breve termine offerti da aziende o singoli clienti, senza firmare un contratto di lavoro dipendente. Al centro di questo modello economico ci sono le piattaforme digitali: le aziende o i clienti pubblicano annunci di lavoro e gli interessati rispondono, dopodiché si passa alla negoziazione dei termini e all’eventuale definizione dell’accordo.
Se da un lato la gig economy garantisce ai gig workers flessibilità, possibilità di lavorare su progetti differenti, autonomia e crescita professionale, dall’altro essa rischia di riportarli a una sorta di “medioevo digitale del lavoro” fatto di diritti azzerati, reddito variabile, mancanza di protezioni sociali, costi operativi altissimi, pressione psicologica, dipendenza dagli algoritmi e bassa forza contrattuale.
Dietro la retorica della flessibilità garantita dalla gig economy, si nasconde un sistema rigido e centralizzato in cui gli algoritmi decidono turni, compensi e priorità dei lavoratori in modo completamente unilaterale. Non a caso, secondo la ong Human Rights Watch, la gestione algoritmica del lavoro sta generando un forte squilibrio tra la posizione di potere delle piattaforme e quella dei lavoratori, ormai privi di qualsiasi leva negoziale.
Nella gig economy, infatti, le aziende esercitano un controllo serrato sulla forza lavoro tramite algoritmi proprietari che assegnano i lavori in base a punteggi di performance, tassi di accettazione e valutazioni dei clienti, determinando persino le tariffe in base a domanda e offerta. E i lavoratori non possono nemmeno negoziare tariffe e turni orari, perché gli algoritmi regolano ogni aspetto del lavoro.
Tutto ciò si traduce innanzitutto in salari insufficienti. Dall’indagine sulla gig economy condotta da Human Rights negli Statio Uniti, infatti, emerge che sei piattaforme su sette adottano modelli di remunerazione a cottimo. Il risultato, per i lavoratori del Texas, è una paga media di 16,90 dollari l’ora dai quali vanno però detratti i costi di carburante, manutenzione e contributi. In questo modo la paga si riduce a 5,12 dollari l’ora, cioè il 30% al di sotto del minimo federale e il 70% in meno rispetto al salario di sussistenza.
A ciò si aggiungono i rischi per la salute connaturati alla gig economy. Un terzo dei lavoratori intervistati nell’ambito dell’indagine condotta da Human Rights, infatti, ha subito incidenti automobilistici sul lavoro e un quarto ha riportato ferite correlate all’attività. Il tutto in mancanza di copertura assicurativa, assistenza medica e indennizzi per infortuni che invece spettano ai lavoratori dipendenti.
Ad accrescere il tasso di precarietà nell’ambito della gig economy è l’arbitrarietà dei licenziamenti. Spesso, infatti, le piattaforme sospendono o cancellano l’account del lavoratore in modo automatico e senza alcun preavviso: il 32 % dei texani intervistati da Human Rights dichiara di aver subito almeno una disattivazione. In tutto ciò, i lavoratori non possono accedere facilmente a procedure di revisione indipendenti, perdendo così il diritto a contestare le decisioni degli algoritmi.
Parallelamente, la gig economy garantisce ricchi introiti alle piattaforme. Nel 2024 Amazon Flex ha fatturato oltre 574 miliardi di dollari, mentre Uber, leader assoluto nel settore del ride-sharing, ha chiuso l’anno con un fatturato di 43,9 miliardi, in crescita del 17,96% rispetto al 2023.
Insomma, la gig economy impone riforme incisive. Innanzitutto occorre assicurare ai lavoratori le tutele minime previste per i dipendenti. Ancora più importante è introdurre norme che assicurino la trasparenza degli algoritimi. A meno che non si voglia consentire ancora alle grandi piattaforme di massimizzare i profitti scaricando costi e rischi sociali sui lavoratori.

