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Perché avere un figlio penalizza sempre le donne nel mercato del lavoro?

La risposta della sociologa Chiara Saraceno dopo gli ultimi dati del Rapporto Inps

Il Rapporto annuale dell’Inps ha confermato che per le madri lavoratrici resistere sul mercato del lavoro è difficile. Oggi ne ha parlato la sociologa Chiara Saraceno su La Stampa mettendo in evidenza che avere un figlio continua a differenziare in modo sensibile i percorsi lavorativi degli uomini e delle donne.

“Non solo – ha scritto Saraceno – molte donne rinunciano ad entrare nel mercato del lavoro in vista della maternità. Anche coloro che vi entrano pagano un prezzo quando hanno un figlio, ancor più se ne hanno più di uno, subendo un peggioramento retributivo che si accentua con ogni nuova nascita”

Questo fenomeno si accompagna a un significativo rischio di abbandono del mercato del lavoro in corrispondenza della nascita del primo figlio.

“Ma nulla di tutto ciò avviene a chi diventa padre – ha sottolineato la sociologa – Un’analisi disaggregata per età, qualifica, settore lavorativo mostra che l’intensità di questa penalizzazione varia a seconda dell’età in cui si ha il primo figlio, il luogo di residenza, il livello di qualifica e se si lavora nel pubblico e nel privato. E’ particolarmente intensa soprattutto se si ha il primo figlio prima dei 35 anni, come invece suggerirebbero coloro che sono preoccupati dal basso tasso di fecondità, e se si lavora nel settore privato, dove la probabilità di uscita tocca il 20%, oltre tre volte tanto che nel pubblico, dove è “solo” del 6%”.

Del resto, anche tra chi non lascia la propria occupazione, sono sempre le madri a prendere il congedo parentale in misura consistente.

“Nei primi 12 anni di vita del figlio – ha evidenziato Saraceno – il congedo è utilizzato dal 63% delle madri e solo dall’8,3% dei padri , evidenziando un marcato squilibrio di genere. Anche la durata media differisce: 126 giorni per le madri contro i 36 giorni per i padri. Circa il 40% delle madri esaurisce i sei mesi disponibili prevalentemente nei primi anni di vita del figlio, mentre solo il 6% dei padri raggiunge il massimo previsto (tre mesi più uno, se la madre ne prende sei, altrimenti fino a sei mesi, se la madre ne prende di meno)”.

Fatto sta che c’è una consistente minoranza di padri che non prende neppure i 10 giorni di congedo di paternità obbligatorio, o non li prende tutti. Perché? Saraceno risponde a questa domanda con un’altra domanda:

“Dopo l’incremento del 20% circa nel 2013 al 64% nel 2022, il trend ascendente sembra essersi arrestato con tassi di fruizione che si sono stabilizzati al 64,5% nel 2023 e al 64,8% nel 2024. Inoltre, se il 66,2% dei beneficiari si astiene dal lavoro per almeno 7 giorni, circa il 30% dei padri utilizza meno della metà dei giorni a disposizione. Andrebbe indagato se questa rinuncia a un diritto, prima che un obbligo, sia dovuta solo a motivi culturali e a modelli di genere maschili e femminili rigidi, o invece anche a timori di perdere il lavoro o essere declassati, come spesso capita alle madri, in un mercato del lavoro sempre più incerto”.

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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