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La nuova sentenza della Cassazione sulla donna licenziata per essere diventata madre

La pronuncia sul caso della dipendente aveva deciso di sottoporsi alla procedura Fivet  (fecondazione in vitro)

La legge prevede specifiche tutele per le dipendenti del settore pubblico e privato che scelgono di diventare madri. In particolare, hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro, come previsto dal d. lgs. 151/2001, il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità.

Un recente caso finito in Cassazione ha però dimostrato che non tutti i datori di lavoro sono ben consci della portata di queste norme. Lo stesso dicasi per le conseguenze che derivano dal licenziare una donna incinta e in procinto di procreare. Vediamo insieme gli aspetti chiave della sentenza n. 24245 della Suprema Corte e quali tutele in favore della donna ribadisce.

Dopo averne comunicato la volontà in ufficio, una dipendente aziendale aveva deciso di sottoporsi alla procedura Fivet  (fecondazione in vitro). Il tutto nell’ambito della procreazione medicalmente assistita – Pma, che comprende tutte le procedure mediche e biologiche mirate a favorire il concepimento in casi di infertilità o sterilità.

In particolare, la Fivet è una delle tecniche più note e diffuse. Prevede il prelievo degli ovociti dalla donna, la fecondazione in laboratorio con gli spermatozoi e, di seguito, il trasferimento dell’embrione nell’utero. In Italia, la legge di riferimento è la n. 40 del 2004, che disciplina proprio la Pma e include la Fivet tra le procedure ammesse.

Sulla scorta dei dati statistici elaborati dal ministero della Salute, questa specifica tecnica ha più probabilità di successo. Tale scelta, però, ha avuto una conseguenza professionale grave e sanzionabile: l’espulsione dal luogo di lavoro. Interessante notare che, se in precedenza il datore sembrava “tollerare la variabile” gravidanza e la necessità di far fronte all’assenza della donna per motivi sanitari, in seguito ha poi cambiato atteggiamento. Dinanzi alla sua decisione di sottoporsi alla procedura Fivet, questo rischio non è stato più tollerato, tanto da sfociare nel troncamento del rapporto.

La donna ha contestato la decisione in tribunale, sostenendo che fosse discriminatoria e lesiva dei suoi diritti costituzionalmente tutelati. La vicenda si è rivelata particolarmente combattuta, giungendo in Cassazione.

La Suprema Corte ha confermato la nullità del licenziamento inflitto alla dipendente che voleva avere un figlio attraverso le tecniche di procreazione medica assistita. La sanzione disciplinare è stata infatti ritenuta lesiva e irrispettosa di una volontà individuale protetta dalla legge. In particolare, secondo i giudici di piazza Cavour il recesso era da ritenersi discriminatorio perché fondato su una condizione personale legata al sesso e alla maternità.

Il “rischio” di maternità, così come la prevista assenza della dipendente dall’ufficio per un certo periodo di tempo, non giustifica una misura così pesante come il recesso unilaterale del datore, spiegano i giudici. In altre parole, il fatto che la donna potesse restare incinta attraverso questa pratica non poteva influire sulla durata del rapporto di lavoro e non poteva costituirne, quindi, una valida ragione di interruzione definitiva.

La Corte ha poi rimarcato che, in linea generale, un licenziamento fondato su ragioni discriminatorie è nullo. Determina dunque la reintegrazione nel posto di lavoro con il diritto al versamento degli stipendi non percepiti, compresa la contribuzione previdenziale.

Con la sentenza n. 24245, i giudici di piazza Cavour hanno valutato come illegale il licenziamento della dipendente che manifesta la volontà di intraprendere una gravidanza con procedura Fivet. La decisione è interessante e chiarificatrice, perché protegge il progetto di maternità nella sua interezza. Ciò vuol dire che la donna lavoratrice va tutelata ancor prima dell’insorgenza di uno stato di gravidanza accertato.

I valori della parità di genere, della dignità individuale, della genitorialità e della non discriminazione sui luoghi di lavoro sono inderogabili. Garantiti dall’ordinamento giuridico italiano. In particolare, le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza (300 giorni prima della data presunta del parto) fino al termine del primo anno di età del figlio.

Ecco perché, in un mondo del lavoro non privo di plateali discriminazioni (come ad es. quella sull’ospedale che aveva posticipato l’assunzione al periodo post gravidanza), la sentenza in oggetto rappresenta un ulteriore tassello nel mosaico delle tutele delle donne nel mondo del lavoro. Con specifica rilevanza in contesti in cui le scelte riproduttive, squisitamente individuali, possono entrare in conflitto con vecchie consuetudini maschiliste, mettendo a rischio la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Attenzione però, non in tutti i casi la lavoratrice in gravidanza conserva il posto. Ci sono infatti delle eccezioni rappresentate dalla giusta causa di licenziamento o licenziamento in tronco. Qualcosa che prescinde dal suo attuale status: grave comportamento ai danni del datore di lavoro; cessazione dell’attività dell’azienda; fine del contratto a tempo determinato; esito negativo del periodo di prova.

Ricordiamo infine che, qualora la donna non voglia ritornare in azienda, pur dopo una sentenza che ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento per gravidanza, potrà chiedere in sostituzione: un’indennità sostitutiva della reintegra, insieme a tutti gli stipendi maturati dalla data del recesso ingiusto.

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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