
Nessuno può costringere alla pensione. Con ordinanza n. 23603 del 20 agosto 2025, la Corte di Cassazione, richiamando la decisione delle Sezioni Unite n. 17589 del 4 settembre 2015, ha ribadito che la prosecuzione dell’attività presso lo stesso datore dopo il compimento dei 67 anni, pur in presenza dei requisiti minimi per il pensionamento di vecchiaia, non è un diritto potestativo ma occorre un accordo tra le parti. Tale accordo, in mancanza di specificazione nell’art. 24, comma 4, del D.L. n. 201/2011, può essere, oltre che scritto, anche in forma orale o per “fatti concludenti”.
Del resto, in un’Italia che invecchia e in cui la sostenibilità del sistema pensionistico è sotto pressione, c’è un fenomeno in crescita che merita attenzione: i pensionati che scelgono di restare attivi sul mercato del lavoro.
A un anno dal pensionamento, ben l’8,5 per cento di loro risulta attivo.
Tuttavia, dietro la media si nasconde una forte eterogeneità: se nel settore pubblico solo lo 0,9 per cento dei pensionati risulta attivo, la quota sale al 21,6 per cento tra gli ex lavoratori agricoli e al 27,4 per cento tra coloro che provengono da casse professionali autonome come Enpam. Anche tra gli ex-artigiani e commercianti l’incidenza è elevata (19,2 per cento), così come tra i lavoratori parasubordinati (9,5 per cento), per i quali la transizione verso il lavoro autonomo appare più frequente.
A rientrare più spesso nel mercato del lavoro sono dunque coloro che hanno svolto attività autonome, grazie a una maggiore flessibilità nel rientro e a causa di una contribuzione media più ridotta rispetto ai lavoratori dipendenti, in cui non sono da trascurare gli sgravi contributivi fino al 50 per cento per artigiani, commercianti e lavoratori agricoli (legge 449 del 27/12/1997) che decidono la prosecuzione dell’attività.