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Un italiano su due vive male a causa del lavoro

Perché è inutile lamentarsi dello stress lavorativo
Una ricerca Mindwork fa emergere che ben il 49% dei lavoratori italiani è stressata

Una ricerca Mindwork fa emergere che ben il 49% dei lavoratori italiani sperimentano elevati livelli di stress. Non solo: tra i manager, la quota sale al 58% mentre solo il 36% della Generazione Z attesta di godere di un livello di benessere elevato.

In pratica, lo studio conferma il cronicizzarsi di uno stato di malessere diffuso che in un caso su cinque sfocia addirittura in una diagnosi di burnout. Ma non solo: più in generale, fotografia un sistema produttivo sull’orlo di una crisi sistemica, una patologia organizzativa che sta erodendo silenziosamente il capitale più importante delle nostre imprese: le persone.

A paralizzarsi, infatti, è la produttività e la competitività del Paese. I dati non descrivono un semplice malessere passeggero, ma un fallimento strutturale del modello di management, un costo economico e sociale che le aziende non sembrano ancora in grado di comprendere e quantificare. Il tema del benessere organizzativo non è più una questione per le risorse umane, ma un’emergenza che dovrebbe essere al primo punto dell’agenda di ogni consiglio di amministrazione.

L’impatto economico del disagio psicologico sul lavoro è un costo sommerso che sta affiorando con una forza devastante. L’osservatorio Mindwork ci dice che quasi la metà dei lavoratori italiani, il 49%, vive in una condizione di stress elevato, una percentuale in crescita che diventa una vera e propria voragine se si guarda alla classe dirigente, dove tocca il 58%.

Questo non è un dato statistico, ma un indicatore di inefficienza produttiva. Un lavoratore stressato è meno concentrato, meno creativo e più incline all’errore. Ma il dato più allarmante riguarda la diffusione della sensazione di sfinimento, sintomo primario del burnout, che interessa il 40% del campione e, in forme diverse, coinvolge oltre sette lavoratori su dieci. Quando questo stato patologico si consolida, porta a una diagnosi medica nel 28% dei casi, un balzo enorme rispetto al 20% dell’anno precedente.

Ogni diagnosi di burnout si traduce in assenze prolungate, con una media di 6,2 giorni per gli impiegati e picchi di 7,6 giorni per i più giovani. Tradotto in termini economici, questo significa migliaia di ore di lavoro perse, progetti rallentati, scadenze mancate e un pesante costo diretto per l’azienda e per il sistema sanitario nazionale. Il sovraccarico di lavoro è citato come causa principale, un segnale inequivocabile di una cattiva organizzazione che spreme le persone fino a romperle, anziché valorizzarle.

La ricerca mette a nudo una delle più gravi patologie del sistema aziendale italiano: un profondo e pericoloso scollamento tra la percezione della dirigenza e la realtà vissuta dai team di lavoro. I dati sono impietosi e descrivono un management che vive in un’illusione di controllo e armonia. Una schiacciante maggioranza di manager, l’84%, è convinta di promuovere un clima di fiducia e ascolto. Peccato che questa visione sia condivisa da meno della metà dei loro collaboratori, appena il 42%. Il divario è identico quando si parla della capacità di riconoscere i segnali di malessere: l’81% dei leader si sente capace di intercettarli, ma solo il 40% dei dipendenti conferma questa sensibilità.

Questo non è un semplice problema di comunicazione, è un fallimento della leadership. Un management incapace di “vedere” il disagio che serpeggia nei propri uffici è un management che non governa l’azienda, ma la subisce. Questa cecità spiega perché la principale sfida percepita dai manager sia proprio quella di mantenere alta la motivazione (33%) e gestire i conflitti (15%). Stanno cercando di curare i sintomi senza aver compreso la malattia, che risiede in un modello di comando verticistico e sordo, incapace di creare quel clima di sicurezza psicologica fondamentale per la produttività e l’innovazione.

La Generazione Z, che entro il 2030 costituirà un terzo della forza lavoro, sta agendo come un detonatore all’interno di questo sistema malato. Questi giovani lavoratori non sono disposti a barattare la propria salute psicologica in cambio di uno stipendio. I numeri lo dimostrano chiaramente: il 61% di loro ha già lasciato un impiego per tutelare il proprio benessere. Quasi la metà (46%) dichiara di essersi assentata dal lavoro per malessere emotivo. A differenza delle generazioni precedenti, che hanno subito lo stigma legato ai disturbi mentali, i più giovani parlano apertamente di ansia e stress e agiscono di conseguenza. Per le aziende, questo cambio di paradigma rappresenta un bivio. Possono continuare a ignorare il problema, considerandolo un segno di fragilità, e prepararsi ad affrontare costi di turnover altissimi, una perenne fuga di talenti e una crescente difficoltà nel reclutamento. Oppure, possono vedere nella Gen Z un’opportunità per accelerare una trasformazione non più rinviabile.

I giovani non chiedono privilegi, ma un ambiente di lavoro sano, inclusivo e sostenibile. Le loro richieste, se ascoltate, possono diventare il motore per un ripensamento generale del benessere organizzativo a vantaggio di tutti, spingendo le imprese a evolvere verso modelli più resilienti e moderni.

I risultati dell’indagine demoliscono definitivamente l’idea che investire sul benessere e sulla salute psicologica sia un “plus” o un’attività filantropica. Oggi è una condizione necessaria per la sopravvivenza e la competitività sul mercato. In un contesto economico instabile, la capacità di attrarre e trattenere i talenti (la cosiddetta retention, indicata come fondamentale dal 59% del campione) è un vantaggio strategico. E tale capacità dipende sempre più dalla qualità dell’ambiente di lavoro. Il fatto che solo il 30% dei dipendenti si senta libero di parlare del proprio disagio psicologico in azienda è un segnale di arretratezza culturale che l’Italia non può più permettersi. Ignorare il burnout significa accettare un calo della produttività, un aumento dei costi sanitari e sociali e, in ultima analisi, un’erosione del proprio vantaggio competitivo. Le competenze relazionali, l’empatia, la leadership consapevole e la creazione di un ambiente di lavoro inclusivo non sono più soft skills, ma asset economici tangibili. Le aziende che continueranno a trascurarli sono destinate a perdere la sfida del futuro, sconfitte non dalla concorrenza, ma dalla loro stessa incapacità di proteggere e valorizzare il proprio capitale umano.

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Redazione del quotidiano di attualità economica "Il Mondo del Lavoro"

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