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Stipendi fermi da trent’anni: ecco perché parlare di pace sociale è impossibile

Mentre in Germania e Francia aumentano, in Italia le retribuzioni restano basse e non compensano la corsa dell’inflazione: basterà la prossima manovra di bilancio a invertire la tendenza?

Può esserci pace sociale in un Paese dove gli stipendi sono fermi da decenni e le famiglie sono strangolate da tasse e inflazione? La risposta, ovviamente, è negativa e riaccende i riflettori su temi come la mancata crescita, la bassa produttività del lavoro e le politiche messe in campo dal governo con l’obiettivo di invertire la tendenza.

È vero, nel 2024 le retribuzioni sono aumentate del 3,1% a fronte di un’inflazione all’1,1. Poi, tra gennaio e agosto di quest’anno, l’incremento è stato del 3,4% a fronte di un indice generale dei prezzi salito dell’1,8%. Ciò non toglie, però, che in Italia i salari sono di fatto fermi da trent’anni, mentre in Germania e in Francia sono aumentati rispettivamente di 20 e 25 punti. Nel 2020, nel nostro Paese i redditi da lavoro erano già più bassi del 2,9% rispetto al 1990. Dopodiché la situazione è ulteriormente peggiorata a causa dell’inflazione, che ha eroso il potere d’acquisto delle retribuzioni, e della tassazione sul lavoro, ben più alta rispetto alla media registrata nei Paesi dell’Ocse. Risultato: l’Italia è 23esima tra i 38 membri dell’Ocse per livello medio dei salari, dietro anche alla Spagna e quasi raggiunta da Polonia e Turchia.

Le cause del fenomeno sono note. In primo luogo si tratta di crescita stagnante e bassa produttività del lavoro, tassazione troppo alta e inflazione crescente. Ma non possono essere sottovalutati un tessuto produttivo costituito prevalentemente da piccole e medie imprese, spesso restie a investire in tecnologia e formazione, e il mancato rinnovo dei contratti collettivi, comunque non sufficiente a compensare la perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione.

Nella manovra appena licenziata dal Consiglio dei ministri, il governo Meloni ha inserito alcune misure con l’obiettivo di dare seguito a quella leggera inversione di tendenza registrata tra 2024 e 2025. Qualche esempio? Tassazione al 5% per gli aumenti contrattuali, tassazione ridotta su straordinari, festivi e notturni, garanzia del recupero dell’inflazione qualora il contratto non sia stato rinnovato da due anni. Nella legge di bilancio, invece, non c’è traccia del recupero del fiscal drag: 25 miliardi di tasse in più pagate da dipendenti e pensionati tra 2022 e 2024 perché gli scaglioni dell’Irpef non contengono l’inflazione.

In un simile contesto, dove anche chi percepisce uno stipendio fisso non può considerarsi al riparo dal rischio di povertà, parlare di pace sociale è quanto meno irrealistico. Tanto più se si riflette sulle enormi disuguaglianze tra le diverse aree del Paese. Secondo la Cgia di Mestre, infatti, la retribuzione giornaliera percepita al Nord è del 35% superiore rispetto quella percepita al Sud: 103 euro contro 77, per la precisione. Senza giustizia sociale, equità e riconoscimento dei diritti, non è possibile parlare di pace: un concetto che, tuttavia, non sembra stare a cuore a certa politica e, troppo spesso, anche a certi sindacati.

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Direttore Editoriale - Articoli pubblicati: 187

Libero Professionista, impegnato oltre che sul fronte dei servizi e prestazioni connesse al tema della prevenzione degli infortuni in ambienti di lavoro, ha maturato una notevole esperienza nell’ambito delle relazioni sindacali, ed oggi è tra i fondatori di diverse realtà sindacali di carattere Nazionale.

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