Manager, politici e commentatori ci hanno abituato a pensare che la flessibilità del lavoro sia un valore. E in effetti lo è, soprattutto quando consente di trovare nuovi e più sostenibili equilibri tra lavoro e vita privata.
Troppo spesso, però, la flessibilità viene usata per camuffare la precarietà, cioè quella condizione di instabilità del lavoro che impedisce di pianificare il futuro. Il dibattito è tornato attuale negli ultimi mesi, soprattutto in occasione del referendum con cui gli elettori sono stati chiamati a pronunciarsi sulle norme del Jobs Act che, secondo alcuni, hanno favorito la diffusione della precarietà e ridotto le tutele per i lavoratori.
Le riforme del mercato del lavoro varate negli ultimi trent’anni hanno notevolmente ampliato la sfera della flessibilità e della precarietà diffondendo il lavoro atipico, cioè quello che si basa su contratti diversi da quello di lavoro subordinato e a tempo determinato. Stando alle rilevazioni dell’Istat, a giugno 2025 i lavoratori con contratti flessibili erano poco più di due milioni e mezzo; i contratti stagionali e quelli di lavoro a chiamata o intermittente risultavano in aumento rispettivamente dell’1 e del 5%; il saldo delle posizioni di lavoro attive parlava di 15mila contratti stagionali, 6mila di somministrazione e 29mila a chiamata in più rispetto allo stesso periodo del 2024.
Come si spiegano questi numeri? I governi succedutisi negli ultimi trent’anni hanno modificato le regole dell’acquisto e della vendita della forza lavoro, sostenendo la diffusione di contratti atipici con l’obiettivo di rendere le persone “appetibili” per il mercato. È qui che nasce l’equivoco – o, se si vuole, l’imbroglio – della precarietà spacciata per flessibilità.
I due concetti, però, non vanno sovrapposti né confusi. La flessibilità, infatti, è un valore positivo quando si sostanzia in un ambiente di lavoro più adattabile e moderno. Qualche esempio? Un contesto in cui il lavoratore possa variare gli orari, ovviamente entro limiti concordati, oppure svolgere i propri compiti da remoto, assicurando fasce di reperibilità virtuale.
Da una parte, ciò consente al lavoratore di migliorare l’equilibrio vita-lavoro, ridurre lo stress e accrescere la propria soddisfazione; dall’altra garantisce all’azienda un aumento della produttività, la riduzione di ritardi e assenze, un rafforzamento del benessere generale. La condizione indispensabile è che questo scenario si realizzi nella cornice offerta da legge e contratti collettivi.
Le norme, infatti, evitano che la flessibilità degeneri in precarietà e cioè in una condizione caratterizzata da mancanza di continuità, scarse tutele, reddito insufficiente e impossibilità di pianificare il futuro. Contratti di breve durata o con scadenze incerte, infatti, non garantiscono continuità di impiego e di reddito, offrono minori tutele e diritti rispetto a quelli previsti per i lavoratori a tempo indeterminato e hanno ripercussioni significative sulla vita privata e professionale delle persone. A risentirne sono soprattutto i giovani, che finiscono per non poter pianificare il proprio futuro, e le donne, le cui possibilità di carriera e di stabilità economica sono ulteriormente limitate dalla precarietà.
Al netto dei tentativi di “confondere le acque”, dunque, il discrimine tra flessibilità e precarietà è piuttosto definito. La flessibilità buona va senza dubbio incentivata e rafforzata, visti i benefici che è in grado di garantire non solo ai lavoratori ma anche alle aziende che ne fanno uso. Da arginare, invece, è la dilagante precarietà che, associata a una riduzione delle tutele e dei diritti dei lavoratori, rischia di condannare centinaia di migliaia di persone a un futuro di incertezza e disagio.

