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Lo sciopero generale promosso dalla CGIL ha riportato in piazza migliaia di lavoratori e ha rimesso al centro del dibattito pubblico temi reali e drammaticamente attuali: salari insufficienti, precarietà, crisi della sanità e della scuola, perdita di potere d’acquisto, disuguaglianze crescenti. Rivendicazioni legittime, in larga parte condivisibili, che intercettano un disagio sociale diffuso. Il problema, però, non è cosa si denuncia. Il problema è come si pensa di risolverlo.
Una protesta forte, ma senza un progetto attuativo
Al di là degli slogan e delle dichiarazioni, ciò che emerge con chiarezza è l’assenza di un programma tecnico-operativo in grado di trasformare le rivendicazioni in soluzioni reali. Non esiste, ad oggi, un piano strutturato che spieghi: come aumentare salari e pensioni in modo sostenibile; come riformare il fisco indicando coperture e tempi; come finanziare sanità e istruzione senza ricorrere a formule generiche;
come superare la precarietà senza limitarsi a enunciazioni di principio.
Lo sciopero, in questo contesto, resta uno strumento di pressione ma non diventa mai strumento di responsabilità. Serve a denunciare, a confliggere, a mostrare forza numerica. Non serve a governare i processi che si vorrebbero cambiare.
Rivendicare senza assumersi il rischio delle decisioni
Qui sta il nodo politico e sindacale più delicato: la protesta viene esercitata senza mai assumersi il rischio delle scelte.
Ogni proposta viene rimandata alla “politica”, al “governo”, al “Parlamento”, come se il sindacato potesse limitarsi a chiedere senza mai misurarsi con la complessità delle decisioni reali. Ma governare il cambiamento significa anche: indicare priorità; accettare vincoli;
fare scelte impopolari; assumersi la responsabilità delle conseguenze. Nulla di tutto questo emerge in modo chiaro. Al contrario, la protesta rischia di diventare un esercizio rituale: uno sciopero “giusto” nei contenuti, ma inermi negli effetti concreti.
Il conflitto come fine, non come mezzo
Quando manca un progetto, il conflitto smette di essere uno strumento e diventa un fine in sé. Si sciopera per scioperare, si manifesta per ribadire un’identità, si alza il livello dello scontro senza costruire una via d’uscita. Questo schema produce tre effetti negativi: illude i lavoratori, facendo credere che la mobilitazione, da sola, possa cambiare le cose; scarica la responsabilità sempre su altri, senza mai proporre un’alternativa praticabile; consuma il consenso, perché alla lunga le persone chiedono risultati, non solo parole.
Il vuoto tra rappresentanza e soluzione
Il paradosso è evidente: si rappresenta il disagio, ma non si rappresenta una soluzione.
In un contesto economico e sociale complesso, il sindacato che vuole essere davvero utile deve fare un salto di qualità:
passare dalla protesta permanente alla progettazione concreta, dalla rivendicazione astratta alla capacità di incidere realmente.
Senza questo passaggio, lo sciopero resta uno strumento rumoroso ma sterile:
forte nella denuncia, debole nell’efficacia; radicale nei toni, ma inconsistente nei risultati.
Una domanda inevitabile
La domanda che molti lavoratori iniziano a porsi è semplice e legittima: dopo lo sciopero, cosa cambia davvero? Se la risposta continua a essere “dipende dagli altri”, allora il problema non è solo del governo. È anche di chi protesta senza mai assumersi la responsabilità di costruire soluzioni vere, studiate, praticabili. Perché difendere i diritti non significa solo reclamarli. Significa renderli possibili.

