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Il Napoli che ritorna in vetta incartando la Roma, il Milan spietato tra le polemiche, Juve che cambia gravità, Inter che tiene botta

Il Napoli torna in cima giocando la partita che voleva, una partita da squadra campione d’Italia, opprimendo la Roma negli spazi, concedendo nulla, incidendo chirurgicamente. Il Milan si prende uno scontro importante, tosto, in casa contro la Lazio, tra VAR infiniti e un controllo del ritmo chirurgico. La Roma incassa un’altra caduta pesante contro una grande, questa volta creando davvero poco. La Juventus ritrova in Yildiz il suo baricentro tecnico . L’Inter resta in scia con un’ottima prestazione e la doppietta di capitan Lautaro.

ROMA–NAPOLI 0-1: il possesso come illusione ottica

La Roma esce dall’Olimpico con il 64% di possesso palla e un dominio territoriale vicino al 70%. Letto così, sembrerebbe un assedio interrotto da un contropiede. Poi ci si avvicina ai numeri che contano davvero, quelli che stanno vicino alla porta, e il quadro si ribalta: 0.42 di xG, quattordici tiri che, in media, valgono meno di un calcio di punizione dalla trequarti.

Questa sproporzione è il manifesto della partita.

Gasperini ha occupato il campo, Conte ha occupato gli spazi. Sono due cose completamente diverse.

Il pallone viaggia, ma non entra mai nel cuore della difesa del Napoli. Il motivo non è astratto: è Milinkovic-Savic protetto da una densità costruita scientificamente, con Lobotka e McTominay che stringono ogni linea possibile e la difesa a tre che non si lascia mai tirare fuori zona.

Il Napoli, al contrario, ha avuto il coraggio di lasciare il pallone all’avversario e la lucidità di selezionare le zone in cui accettare il rischio. I nove tiri prodotti non sono tanti, ma sono chirurgici. Gli 1.38 xG sono il risultato di poche situazioni, tutte però con un senso: il gol di Neres vale da solo quasi mezzo gol atteso. Non è un contropiede “buttato lì”: è la conseguenza diretta di una Roma sbilanciata, di un Hojlund che porta via Ndicka e di Hermoso lasciato da solo sull’isola sbagliata, contro l’uomo sbagliato.

I duelli individuali, qui, non sono folklore: sono struttura. Neres che salta Hermoso in quattro delle cinque situazioni di isolamento è un dato, ma ancora prima è un piano gara. Buongiorno che vince quasi tutti i duelli con Ferguson e lo cancella come “falso nove” non è un dettaglio: è la demolizione del tentativo romanista di mescolare le carte in mezzo.

Quando sommi tutto – il possesso sterile della Roma, la selezione chirurgica del Napoli, l’uso delle transizioni non come piano B ma come piano A – ti ritrovi davanti a una verità semplice: il Napoli non ha rubato nulla, ha costruito una vittoria arrotondata più dall’idea che dal punteggio.

MILAN–LAZIO 1-0: l’estetica del controllo contro l’ansia del palleggio

Milan–Lazio è stata venduta, come al solito, come Allegri contro Sarri, il “corto muso” contro il “sarrismo”. Ridotto così, è un fumetto. In campo, invece, si è vista una cosa molto più interessante: una squadra che conosce i limiti dell’avversario meglio dell’avversario stesso.

La Lazio ha avuto più pallone, più passaggi, più tempo nel mezzo. I numeri lo certificano: oltre il 53% di possesso, quasi 500 passaggi completati, novantasei giocate nella trequarti rossonera.

Ma l’xG fermo sotto lo 0.7 racconta la parte che conta: questo palleggio non è diventato minaccia, è rimasto terapia.

Il Milan ha accettato di difendersi senza mai dare l’impressione di subire. Il 5-4-1 senza palla non è stato un bunker, ma una forma di governo del ritmo. Allegri non ha preteso di recuperare alto, non ha chiesto corse senza senso: ha chiesto di decidere dove la Lazio potesse arrivare e dove no.

Tomori, Gabbia e Pavlović hanno mantenuto la linea quasi sempre integra, con le scivolate di Saelemaekers e Bartesaghi a chiudere le corsie e Maignan a mettere il timbro quando la fase difensiva richiedeva un portiere oltre la media. Il colpo di testa di Gila dopo due minuti è un esercizio di stile per il francese, ma pesa psicologicamente: la Lazio capisce che per segnare dovrà passare per una porta strettissima.

Dall’altra parte, il Milan non è mai andato all’arrembaggio, ma ha coltivato con pazienza l’unica cosa che cerca Allegri nelle grandi partite: il momento giusto. La costruzione che porta al gol di Leão è la sintesi dell’intera filosofia: diciassette passaggi, nessun gesto superfluo, Tomori che da “braccetto” rompe lo spartito, si sovrappone dentro e consegna a Leão un pallone che il portoghese trasforma con un movimento da nove più che da esterno.

Anche qui, i numeri sono meno freddi di quanto sembri: 1.47 xG contro 0.68, stesso numero di tiri nello specchio, ma con qualità del tiro rossonera nettamente superiore. Non è un “1-0 casuale”; è il risultato di una squadra che non ha bisogno di dominare il gioco per dominare le probabilità.

La Lazio, al contrario, è finita esattamente nella gabbia che cercava di evitare: squadra che ha la palla per principio, ma che non sa più come farla diventare arma quando manca il livello tecnico di un tempo. Palleggia perché deve, non perché può.

E quando il palleggio diventa obbligo, non è più un’identità: è un peso.

JUVENTUS–CAGLIARI 2-1: la rinascita di Yildiz

La partita dell’Allianz è probabilmente quella che racconta meglio il paradosso della Juventus. 

Nel primo tempo la Juventus gioca alta, comoda, con un baricentro che resta stabilmente nella metà campo sarda. Il 57% di possesso ha un peso diverso rispetto a quello della Roma: qui è associato a 129 passaggi nella trequarti offensiva, contro i 37 del Cagliari. È territorio, non solo palleggio.

Nel mezzo, c’è il lampo di Palestra che prepara il gol di Esposito. L’azione è pulita, ben eseguita, quasi un corpo estraneo rispetto all’andamento dei primi minuti. Il Cagliari passa in vantaggio in una partita che, per volume e posizione di gioco, non è sua. Il calcio, ogni tanto, concede questa ironia.

Ma la Juventus, stavolta, reagisce non per inerzia ma per identità. La risposta arriva da Yildiz, che in quel momento smette ufficialmente di essere “una promessa” per diventare il giocatore attorno a cui è normale appoggiarsi. Il primo gol è un atto di violenza tecnica: palla sporca, controllo, tiro che piega Scuffet e rimette l’asse dove i dati lo avevano già messo. Il secondo è ancora più interessante, perché nasce da un movimento collettivo in pieno stile Motta: Kalulu rompe la linea, sceglie il tempo dell’inserimento come una mezzala, serve Yildiz e la Juve riscrive il copione.

Gli xG dicono 1.71 a 0.54. Le big chances sono a favore della Juve. I tiri nello specchio pure. Nulla di sorprendente: il 2-1 è in realtà la versione contenuta di una partita che poteva finire con un margine più largo.

Il Cagliari, da parte sua, esce con la sensazione opposta: quando ha provato ad alzare il coraggio nella ripresa, qualcosa ha prodotto; quando ha costruito la partita sul timore, la Juve lo ha spostato a proprio piacimento. È un promemoria severo: se ti difendi male e attacchi poco, i numeri saranno sempre lì a dirti che non sei stato “sfortunato”. Sei stato inferiore.

ATALANTA–FIORENTINA 2-0: un laboratorio che funziona contro un’idea che non regge più

L’Atalanta di Palladino prende l’eredità gasperiniana e la filtra. La costruzione bassa in 3+2 non è un vezzo, è il modo migliore per portare dentro il campo De Roon ed Ederson come filtro e rampa di lancio. Davanti a loro, De Ketelaere si muove tra le linee con quella ambiguità tattica che manda in crisi i mediani viola: se lo segui, ti scopri; se lo ignori, ti punisce. Lookman, sul lato, vive nello spazio che si crea alle sue spalle, Scamacca tiene occupati i centrali, riceve, fa a sportellate, consuma.

Il gol di Kossounou racconta il lavoro sulle palle inattive meglio di qualsiasi lavagna tattica. Non è un difensore che “si trova lì”: è un movimento studiato, una linea viola che si abbassa male, un taglio sul secondo palo che sembra la corsa di un attaccante consumato. Il raddoppio di Lookman è ancora più emblematico: palla recuperata, scarico su De Ketelaere, che vede il corridoio aperto e manda l’ala sul lato debole. Il resto lo fa la freddezza.

La fiorentina, qui, non perde per un episodio. Perde perché le sue coordinate sono saltate. Tredici giornate senza vittorie, in un contesto del genere, non sono più una striscia “sfortunata”. Sono la prova che il sistema non regge l’urto di avversari che corrono di più, pressano meglio, accettano la battaglia fisica senza perdere la lucidità.

Il centrocampo finisce schiacciato in un ruolo che non riesce a sostenere, gli esterni offensivi non vincono mai il duello, la panchina non sposta l’inerzia. Non c’è più alibi che tenga: il problema non è il singolo errore, ma l’idea complessiva che non riesce a trovare un suo spazio contro avversari che hanno fatto un passo evolutivo in più.

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Autore - Articoli pubblicati: 30

Studente di Giurisprudenza, con esperienza amministrativa e interesse per ambito legale, aziendale e risorse umane.

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