Solo poche settimane prima, negli stessi undici contro undici, il Bologna aveva messo a nudo le fragilità azzurre. Novanta minuti sono bastati ad Antonio Conte per trasformare quella sconfitta in materiale di studio. Non con dichiarazioni, ma con i movimenti della squadra. Perché il calcio, quando è governato bene, premia l’adattamento, la cognizione tattica e la cura maniacale dei dettagli.
Il sistema e i suoi principi
Conte ha confermato il 3-4-2-1 introdotto dopo la sconfitta del Dall’Ara. Non una scelta conservativa, ma funzionale. Con Lobotka e McTominay a formare un doppio fulcro complementare, il primo regista difensivo, il secondo incursore fisico.
Il Napoli ha controllato il campo più che il pallone.
Gli esterni, Politano e Spinazzola, non hanno interpretato il ruolo in maniera tradizionale. Hanno occupato zone intermedie, alzando il baricentro senza scoprirlo. Il risultato è stato un pressing selettivo, capace di disturbare la costruzione bolognese senza concedere transizioni pulite.
Nel primo tempo il Napoli ha avuto il 54% di possesso, ma soprattutto ha concesso al Bologna appena 0.04 expected goals, producendo il proprio vantaggio con razionalità. Non attesa, ma dominio intelligente.
David Neres e il talento che diventa funzione
Se il sistema è stato la struttura, David Neres ne è stato l’interprete più compiuto. La sua doppietta racconta due modi diversi di essere decisivo.
Il primo gol nasce dalla lettura del tempo: ricezione sulla trequarti, accentramento misurato, tiro a giro dai venticinque metri. Nessun dribbling superfluo, nessuna accelerazione forzata. Il gesto giusto, nel momento giusto.
Il secondo gol è invece una punizione alla presunzione. La costruzione dal basso del Bologna si spezza su un errore di Ravaglia; Neres anticipa, legge prima degli altri e chiude con freddezza. Non genio improvviso, ma lucidità.
È il segno di un’evoluzione. Il talento non più anarchico, ma integrato. Non più fine a se stesso, ma funzionale al collettivo.
La sterilizzazione del Bologna
Il Bologna arrivava alla finale forte dell’eliminazione dell’Inter. Ma a Riyad è apparso incompleto. L’assenza di Freuler ha tolto equilibrio alla mediana, lasciando spazio agli inserimenti di McTominay. Il Napoli ha colpito esattamente lì.
Anche la costruzione dal basso, cifra identitaria della squadra di Vincenzo Italiano, si è trasformata in vulnerabilità. Non per principio, ma per contesto: senza le giuste condizioni, anche le idee migliori diventano rischi.
Oltre il risultato
Il 2-0 finale è persino stretto. Politano, nel finale, ha fallito un’occasione che avrebbe potuto dilatare il punteggio. Ma non cambia il senso della partita: il Napoli l’ha controllata dall’inizio alla fine, senza concedere spiragli emotivi.
Anche chi non ha inciso nei tabellini, come Højlund, ha avuto un peso specifico decisivo: lavoro spalle alla porta, connessioni, tempi di risalita. Prestazioni che non fanno rumore, ma fanno vincere.
Un trofeo, un messaggio
La Supercoppa non definisce una stagione. Ma indirizza una narrativa. Questa vittoria dice che il Napoli non vive più di improvvisazione offensiva, ma di consapevolezza. Che il talento, quando accetta la disciplina, diventa più incisivo. Che una sconfitta, se letta correttamente, può diventare una mappa.
Il Bologna resta una squadra credibile e interessante. Ma a Riyad ha scoperto che il calcio, spesso, si gioca prima del fischio d’inizio. Nella capacità di ricordare, analizzare e correggere.
Il Napoli, con questa Supercoppa, ha scelto di partire da lì.

