
Quella che l’Italia ha ricevuto da Fitch, l’agenzia che ha alzato il rating del nostro Paese a BBB+, è senza dubbio una promozione. Non è la prima, visto che SeP aveva già espresso un giudizio positivo ad aprile scorso, e probabilmente non sarà l’ultima, se si pensa che Moody’s parla apertamente di “prospettive positive”. Ma ora che i conti sono ufficialmente a posto e le agenzie di rating (le stesse che in passato avevano condannato l’Italia) lo certificano, sarebbe giusto e doveroso fare un passo avanti. E cioè un passo in direzione della crescita, elevando i livelli di produttività che sono ancora il tallone d’Achille del Paese.
L’imperativo, in altre parole, è puntare allo sviluppo. La Spagna, d’altra parte, dimostra come crescere sia possibile anche in un contesto agitato dalla guerra, dai costi esorbitanti dell’energia, dai dazi americani e dalle politiche commerciali aggressive messe in atto dalla Cina. E quel +3% previsto per il Paese iberico di qui alla fine dell’anno vale a fugare ogni dubbio in tal senso. In Italia, invece, la crescita resta troppo debole. A dispetto dei numerosi cantieri aperti nell’ambito del Pnrr, nel 2025, infatti, il nostro Paese crescerà metà di quanto previsto inizialmente, cioè di un modesto mezzo punto percentuale. E, nonostante i dati sull’occupazione siano molto incoraggianti, la quota di abitanti a rischio di povertà o esclusione sociale resta in costante ascesa e potrebbe presto toccare un quarto del totale.
Qui, come ha osservato Federico Fubini, emerge il problema dell’ancora troppo bassa produttività del nostro sistema economico. Secondo la banca dati della Commissione europea, in Italia ogni ora lavorata produce in media il 20% di reddito in meno rispetto alla Germania e il 14 in meno della Francia. E mentre lo spread finanziario, questo scarto di produttività rispetto alle due potenze europee continua ad allargarsi. La svolta potrebbe arrivare dall’intelligenza artificiale, come ha giustamente ricordato Mario Draghi nel discorso sullo stato di attuazione della sua Agenda. Invece l’Italia è in ritardo anche su questo fronte. Secondo l’Eurostat, nel 2024 solo l’8% delle imprese italiane usava l’intelligenza artificiale, collocando il nostro Paese al sestultimo posto in Europa dopo Cipro, Ungheria, Bulgaria, Polonia e Romania. Nel frattempo, nel 2025, gli Stati Uniti hanno toccato quota 45%, la Cina 39 e l’India 28. In più, il decreto dell’Energy Release non ha ancora portato benefici per le bollette delle imprese perché la sua versione iniziale non era adeguata. E gli sgravi di Transizione 5.0 per gli investimenti restano inutilizzati a causa della solita, asfissiante burocrazia.
Insomma, ottenute due importanti promozioni sul fronte dei conti e su quello dell’occupazione, l’Italia deve puntare a una crescita intensiva, come l’ha definita Stefano Manzocchi sulle pagine del Sole 24 ore. Ciò significa allargare la base di partecipazione al mercato del lavoro soprattutto nel Mezzogiorno, accelerare sui programmi di formazione e sulle politiche attive del lavoro, intensificare la sinergia pubblico-privato per l’apertura di nuovi mercati di esportazione, rafforzare gli investimenti finalizzati alla trasformazione dei processi produttivi nell’industria, nella finanza e nei servizi tradizionali. A meno che non si voglia assistere inerti a quella dissoluzione del modello di crescita che Draghi ha apertamente denunciato.