
La legge 144 del 26 settembre 2025 e lo studio del Cnel sui “contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati” hanno riacceso un vecchio dibattito: chi decide quali contratti contano davvero?
La risposta, purtroppo, sembra ancora una volta orientata verso la conservazione dell’esistente e non verso la promozione di un sistema più equo, aperto e pluralista.
Il criterio dei contratti “maggiormente applicati” appare oggi profondamente inadeguato. Si basa su una fotografia del passato, non su una lettura dinamica del presente.
Misurare la validità o la legittimità di un CCNL soltanto in base alla sua diffusione numerica significa ignorare che la conoscenza e la diffusione dei contratti non sono automatiche, ma richiedono tempo, informazione e riconoscimento istituzionale.
Molti dei contratti definiti “minori” sono in realtà migliorativi nei contenuti economici e normativi, ma vengono esclusi perché non ancora conosciuti o perché privi della visibilità garantita ai grandi sindacati “storici”.
Il risultato è un sistema non democratico, dove la scelta di un contratto non è libera ma condizionata da un meccanismo di conteggio che favorisce chi è già dominante.
Si parla di semplificazione, ma in realtà si tratta di egemonia contrattuale: i nuovi modelli, spesso più coerenti con le esigenze del lavoro contemporaneo, vengono schiacciati sotto il peso di un sistema chiuso e autoreferenziale.
Ancora più grave è l’effetto sul piano della giustizia retributiva. Molti dei contratti “maggiormente applicati” presentano minimi salariali che non rispecchiano il principio costituzionale di una retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36).
Eppure sono proprio questi contratti ad essere presi come riferimento per verifiche ispettive e valutazioni di congruità, escludendo altri che, se applicati, garantirebbero condizioni più dignitose e sostenibili.
In questo contesto, il ruolo del CNEL dovrebbe essere ben diverso: non quello di certificare il passato, ma di favorire il futuro.
Dovrebbe sostenere la conoscenza e la diffusione dei nuovi contratti, incoraggiare la competizione virtuosa tra modelli di contrattazione e promuovere la libertà sindacale, non limitarla.
Basarsi su dati storici significa ignorare la trasformazione profonda del lavoro e della società.
Se davvero vogliamo garantire ai lavoratori una retribuzione proporzionata e sufficiente, serve un sistema di contrattazione aperto, dinamico e pluralista, non un recinto che difende solo i “soliti noti”.