Tra rate, noleggi e servizi a consumo stiamo perdendo il senso della proprietà. Ma il rischio più grande riguarda il lavoro: ridotto a prestazione temporanea, priva di radici e prospettive.
Viviamo in un’epoca paradossale: sembriamo avere tutto a portata di mano, ma in realtà non possediamo più nulla.
Il modello economico che ci circonda è fondato sull’accesso temporaneo, non sulla proprietà: la casa si affitta, l’auto si noleggia, il telefono si paga a rate, i software si utilizzano in abbonamento, film e musica sono in streaming. Non accumuliamo più beni, ma solo servizi. È la logica del “pay-per-view” applicata alla vita quotidiana.
Questa trasformazione non riguarda soltanto i consumi, ma sta travolgendo anche il mondo del lavoro. Il lavoratore moderno rischia di essere considerato sempre più come un utente a tempo: contratti precari, collaborazioni discontinue, piattaforme digitali che ti attivano e disattivano in base alla domanda. Non sei più parte integrante di un’impresa o di un progetto, ma un “servizio on demand” da richiamare solo quando serve.
Si tratta di un vero e proprio spossessamento identitario. Così come non siamo più proprietari dei beni che utilizziamo, non siamo più padroni nemmeno del nostro lavoro. Le nostre competenze, le nostre energie, perfino la nostra disponibilità al sacrificio vengono trattate come pacchetti a consumo.
Questa logica produce due conseguenze devastanti
- Perdita di sicurezza: se tutto è temporaneo, se nulla è tuo, non puoi pianificare il futuro. E senza futuro, il presente diventa instabile e fragile.
- Perdita di identità: il lavoro non è più ciò che ti definisce, ma un accesso temporaneo a un’attività. Un click ti abilita, un altro click ti spegne.
Ma il lavoro, nella sua essenza, non può essere un abbonamento. Il lavoro è costruzione, accumulo di esperienze, sedimentazione di competenze, radicamento. È un patrimonio che ogni persona porta con sé e che non può essere ridotto a una licenza mensile.
Qui entra in gioco quella che chiamo l’arte del meriggiare: un metodo per fermarsi, riflettere e distinguere il necessario dal superfluo. Nel mondo del lavoro significa smettere di rincorrere soltanto la produttività istantanea e riscoprire il valore della stabilità, della formazione, delle radici.
Meriggiare, in ambito lavorativo, vuol dire dare tempo alle persone di crescere, riconoscere il valore dei percorsi, non trattare le competenze come se fossero un “servizio plug-and-play”. Vuol dire restituire dignità e proprietà del proprio futuro professionale ai lavoratori.
Forse la nuova povertà del nostro tempo non è la mancanza di denaro, ma la mancanza di radici nel lavoro. Non possediamo più nulla, neppure la nostra carriera. E il primo passo per invertire la rotta è semplice ma rivoluzionario: meriggiare. Rallentare, ripensare il modello, restituire centralità al lavoratore come persona e non come semplice “abbonamento” da disdire a fine mese.
Solo così il lavoro tornerà ad essere davvero ciò che deve: non un consumo, ma una costruzione. Non un servizio a tempo, ma un patrimonio di vita.
Nota dell’autore
Questo editoriale nasce da una riflessione che porto avanti da tempo: l’arte del meriggiare, la lentezza consapevole che ci aiuta a distinguere ciò che conta davvero. Applicata al lavoro, significa restituire alle persone la proprietà del loro tempo e del loro futuro.