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La fragilità del dominio e il valore della resilienza : Bologna-Inter 1-1 (3-2 d.c.r).

A Riad, nella semifinale di Supercoppa, si è consumata una partita che il tabellino non spiega e che i numeri, da soli, rischiano persino di tradire. L’Inter esce ai rigori contro il Bologna dopo aver controllato il pallone, il territorio e a tratti persino il ritmo. Eppure, a passare è chi ha toccato meno, ma ha capito meglio quando e come colpire.

È una partita che racconta una verità scomoda del calcio contemporaneo: il dominio non è garanzia di controllo emotivo, né di efficacia reale.

L’Inter parte come ci si aspetta da una squadra convinta della propria superiorità strutturale. Pressione immediata, recupero alto, verticalità feroce sull’errore avversario. Il gol iniziale nasce esattamente da questo: anticipo, palla subito dentro, attacco dell’area senza fronzoli. È un vantaggio che sembra promettere gestione totale.

È invece l’inizio del problema.

Dopo il gol, i nerazzurri rallentano. Il possesso si allarga, diventa laterale, ripetitivo. Non accelera più, non ferisce. Il Bologna non prova a contendere il pallone, ma lavora su altro: distanze, duelli, tempi di uscita. Non conquista campo, conquista insicurezze. Ogni pressione non serve a rubare metri, ma a togliere certezze.

Il pareggio arriva su rigore, ma l’episodio non è casuale. È il prodotto di una linea difensiva che ha perso sincronia, sorpresa da movimenti non letti in anticipo. Il fallo non è goffo, è tardivo. E la tardività, nel calcio ad alta intensità, è sempre un segnale.

Da lì in poi, la partita entra in un territorio che l’Inter conosce meno di quanto sembri. La ripresa è un lungo esercizio di circolazione senza progressione. Il pallone gira, ma non pesa. Le catene laterali arrivano sempre un tempo prima o un tempo dopo. I centrocampisti palleggiano, ma non rompono. Le punte vengono incontro, ma restano scollegate.

Il Bologna, al contrario, gioca una partita di sottrazione intelligente. Recupera e riparte. Poche volte, ma con senso. Ogni transizione ha un obiettivo chiaro: arrivare in area o costringere l’avversario a rincorrere all’indietro. Non accumula occasioni, accumula pressione mentale.

È qui che si capisce che la partita non è una questione di volume, ma di impatto.

Quando si arriva ai rigori, l’epilogo sembra crudele solo a chi continua a pensare al calcio come a una lotteria. Non lo è. I rigori sono una radiografia emotiva. L’Inter calcia con il peso di chi sente di “dover vincere”. Il Bologna calcia con la leggerezza di chi ha già portato la partita dove voleva.

La differenza non è tecnica. È psicologica, prima ancora che tattica.

Questo non significa che l’Inter abbia giocato male. Significa qualcosa di più inquietante: ha giocato secondo una logica che funziona finché il contesto resta pulito, ordinato, prevedibile. Quando il match si sporca, si accorcia, si carica di tensione, quel controllo diventa fragile.

Il Bologna, invece, dimostra che nel calcio moderno l’efficacia non nasce dal possesso, ma dalla capacità di sopportare il momento. Di stare dentro la partita anche quando non la stai comandando. Di capire che non tutte le fasi vanno vinte, alcune vanno semplicemente resistite.

La semifinale di Riad non è un incidente. È un segnale. In un calcio sempre più fisico, emotivo e intermittente, il vero vantaggio competitivo non è tenere il pallone più degli altri, ma sapere cosa farne quando pesa davvero.

E il Bologna, in questa partita, lo ha dimostrato meglio di chiunque altro.

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Autore - Articoli pubblicati: 34

Studente di Giurisprudenza, con esperienza amministrativa e interesse per ambito legale, aziendale e risorse umane.

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