
Bassa produttività, meno giorni di lavoro, precariato e disoccupazione: così nel Mezzogiorno dilaga il lavoro povero
Non è un mistero: al Sud si guadagna meno che al Nord, spesso molto meno. Lo certificano i dati, oltre che l’esperienza di milioni di lavoratori. Ma perché questa differenza di salario resiste ancora nel 2025? E, soprattutto, come si può cancellare questa grave forma di disparità? Partiamo dai numeri. Secondo la Banca d’Italia, lo scarto di retribuzione per lo stesso impiego tra Nord e Sud è del 9%. Considerando la totalità dei salari, quella differenza sale fino al 28%.
Anche la Cgia di Mestre ha analizzato questo aspetto e calcolato che la retribuzione giornaliera percepita al Nord è del 35% superiore rispetto quella percepita al Sud: 103 euro contro 77, per la precisione. La provincia dove il lavoro è pagato meglio è quella di Milano con 34.343 euro l’anno, seguita da Monza-Brianza con 28.833 e Parma con 27.869. Se le aree in cui si guadagna di più sono concentrate tutte al Nord, quelle in cui si guadagna di meno si trovano tutte al Sud. A Cosenza e dintorni un lavoratore percepisce in media 14.817 euro l’anno, a Nuoro 14.676 e a Vibo Valentia 13.388.
Ma come si spiega uno scarto tanto evidente? La prima ragione è la struttura produttiva. Al Sud la gran parte delle imprese opera in agricoltura, ospitalità turistica e ristorazione, tutti settori che tendono ad affidarsi a lavoratori stagionali e a offrire stipendi più bassi. Al Nord, invece, si concentrano grandi imprese attive soprattutto in settori ad alta produttività come automotive, meccanica, meccatronica, agroalimentare e biomedicale. E la produttività è un’altra nota dolente.
La Cgia di Mestre ravvisa uno scarto di produttività del 34% tra le imprese del Nord e quelle del Sud. Non solo: al Sud si lavora soltanto 228 giorni l’anno a fronte dei 255 del Nord anche a causa del lavoro irregolare, che impedisce di registrare ufficialmente molte ore di lavoro, e della maggiore diffusione di settori come il turismo, in cui si lavora soltanto per una parte dell’anno. Tutto ciò, ovviamente, si ripercuote sui livelli delle retribuzioni che al Sud sono necessariamente più bassi. Determinanti sono anche il precariato e la disoccupazione pregressi: oltre a ridurre i giorni di lavoro e la produttività, questi due elementi indeboliscono il potere contrattuale di lavoratori e sindacati costringendoli ad accettare salari bassi.
Come fare, dunque, per garantire a chi lavora nel Sud uno stipendio adeguato e uno stile di vita decoroso? Per molti anni si è creduto che la soluzione fosse quella delle gabbie salariali, cioè di adeguare le retribuzioni al costo della vita in ciascun territorio. Scartata questa soluzione, non resta che aumentare la produttività innanzitutto dove si crea, cioè nelle aziende.
Ciò impone, prima ancora dell’introduzione del salario minimo legale, un’estensione della contrattazione collettiva, l’immediato rinnovo dei contratti collettivi scaduti ormai da decenni, la detassazione dei premi di produttività. In più, sono indispensabili modelli organizzativi, tecnologici e di competenze nuovi e più efficaci. In altre parole, serve una visione che alimenti competitività, concorrenza, sburocratizzazione, ricerca, sviluppo e investimenti: è l’unica strada per non condannare i meridionali a un futuro di disagio economico.